Giulio Regeni e i suoi coetanei, in viaggio per scelta

10 Febbraio 2016

di Alessandra Tarquini

In questi giorni mi sono trovata a leggere alcuni articoli sulla meglio gioventù del nostro paese. Pezzi purtroppo nati dalla terribile notizia della morte di un ricercatore, Giulio Regeni, in Egitto.
 Ho ragionato su questa meglio gioventù, ho sentito alcuni sospirare e dire “era in Egitto perché l’Italia non offre più nulla ai nostri talenti e li lascia scappare via”.
 Non credo sia cosi.
 Credo invece che Giulio fosse esattamente nel posto dove voleva essere. Dove aveva scelto di andare, dove erano necessario stare per fare ricerca, per continuare i suoi studi che avevano come oggetto l’Egitto.


E’ vero che ci sono tanti ragazzi
che abbandonano il nostro paese per provare a trovare un lavoro, non quello per il quale hanno studiato, dignitoso fuori dallo stivale, sperando un giorno di tornare a casa e trovare li una vita serena. Ma ce ne sono altri che invece scelgono di andare per le strade del mondo perché è li che possono studiare, possono raccogliere informazioni, possono osservare e narrare l’oggetto dei loro studi, delle loro inchieste, possono lavorare, mettendo in pratica anche quanto appreso all’università.
 E’ stato così per Giulio, per Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano rapito in Pakistan e ucciso da un drone americano per “errore” un anno fa.

Stessa storia per Simone Camilli, reporter ucciso in Palestina, oppure Andy Rochelli giornalista morto in Ucraina o Ilaria Alpi che in Somalia è stata vittima di un omicidio del quale ancora non abbiamo i colpevoli.
 E andando per alcune strade del mondo si muore. Penso che questo sia il problema. Non il fatto di partire. Le nostre generazioni sono abituate ad andare. Siamo abituati  a fare la valigia e spostarci, trovando nuovi luoghi. I confini non ci appartengono. E non è un’onda rivoluzionaria che ci porta a fare le valigie, ma semplicemente la nostra vita e il fatto di sentirci cittadini di un mondo che ci appartiene tutto, anche se poi a ricordarci che le barriere si erigono ci sono i controlli, i check-in, i muri, il senso di insicurezza che in alcuni luoghi impariamo a conoscere.

Ci manca l’Italia, chi più chi meno, ma non si può negoziare con le proprie passioni, con il proprio percorso di vita, con la propria vocazione professionale e umana, se mai si riuscisse a distinguere l’una dall’altra. Se è l’Egitto il luogo dove ti portano i tuoi studi, è li che devi andare. E sei felice di arrivarci. Se è Detroit il posto dove il professore alla fine della tua laurea ti propone di partire, anche se è una città apocalittica quella che ti accoglierà per i prossimi 3 anni, è li che vai e  sei felice quando ti trovi a fare ricerca in un team internazionale. Se hai scelto di lavorare nella cooperazione, per una ong, per una organizzazione internazionale allora sai che potresti andare in ogni punto di quella mappa di Peters che hai alla parete. Poi c’è chi decide di tornare, c’è chi continua a viaggiare in eterno alla ricerca di storie, di nuove comunità dove rendersi utile, e c’è chi invece crescendo scopre che il Bangladesh potrebbe diventare la sua nuova casa, il suo secondo paese di adozione. E non c’è niente di straordinario o di migliore rispetto a chi invece si costruisce la sua vita in Italia.

Il problema come dicevo qualche riga fa non è il fatto di partire, ma è il fatto che in alcuni luoghi, come il Cairo, lo spazio di vita si restringe e arriva a diventare un rischio il fatto di studiare, approfondire, di fare informazione. Tutte queste attività danno fastidio a regimi dittatoriali dove le libertà e i diritti umani vengono ordinariamente calpestati, senza distinzioni di passaporto. L’appello di verità e giustizia per Giulio Regeni è considerando tutto questo che diventa un appello per chiedere ai governi, all’Europa, alle istituzioni internazionali di rendere questo mondo un posto più sicuro per tutti, dove garantire uno spazio di vita per ogni Giulio che si troverà a camminare per le strade di una città. Per Giulio siamo arrivati tardi. Ma possiamo ancora occuparci di tutti quei giovani che scompaiono nelle strade del Cairo. Evitiamo di versare lacrime amare troppo tardi e di  aprire gli occhi solo quando un nostro concittadino viene torturato e ucciso brutalmente.