di Riccardo Noury*
Abdelkarim al-Farkhawi, 49 anni, fondatore di Al Wasat, uno dei pochi organi d’informazione indipendenti del Bahrein, morì di tortura, nell’aprile 2011. Due uomini dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, condannati per il suo omicidio, sono già tornati in libertà. Nazeeha Saeed, giornalista indipendente, nel maggio 2011 fu torturata con la corrente elettrica, picchiata con un tubo di plastica, presa a calci e pugni. Un agente la costrinse a infilare la testa dentro il gabinetto. Indagine chiusa per insufficienza di prove.
Giornalisti, difensori dei diritti umani (come la famiglia al-Khawaja: padre condannato all’ergastolo, le due figlie Mariam e Zainab perseguitate per le loro denunce), medici, insegnanti, studenti, sindacalisti… La repressione in corso da cinque anni nello stato-isola del Bahrein, esattamente dal giorno di San Valentino del 2011, non ha risparmiato nessuno.
Grazie a un’efficace politica di pubbliche relazioni, spalleggiata dai due principali sponsor (Stati Uniti e Regno Unito) e aiutata all’inizio della rivolta dall’intervento militare dell’Arabia Saudita, la famiglia reale al-Khalifa è riuscita a far passare sottotraccia i processi irregolari, le torture, l’uso massiccio del gas lacrimogeni (secondo l’Ong Physicians for human rights, nessuno come il Bahrein ha usato così tanto gas contro la popolazione civile negli ultimi 100 anni) e le decine di uccisioni di manifestanti.
Una delle vicende più recenti riguarda Ahmed al-Fardan, il fotografo dell’agenzia dell’Aquila Nurphoto che fece conoscere al mondo la rivolta del Bahrein. Il 3 febbraio una corte d’appello ha confermato la condanna a tre mesi inflittagli il 17 febbraio 2015 per “tentata partecipazione a un incontro pubblico”, ossia una manifestazione di protesta svoltasi il 16 dicembre 2013 nel villaggio di Abu Saiba’, a ovest della capitale Manama, dove al-Fardan si era recato per fare il suo lavoro: scattare fotografie.
Al-Fardan paga col carcere la “violazione” di una delle principali regole del governo della famiglia reale Al-Khalifa: non far sapere all’estero cosa accade nel paese. Le sue foto hanno fatto il giro del pianeta, sono state pubblicate da importanti testate e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti.
Tuttavia e suo malgrado. non sono state sufficienti ad accendere la luce sulla rivolta dimenticata del Bahrein. Anche quest’anno, temo, si accenderanno solo per lo svolgimento del gran premio automobilistico di Formula 1.
O magari per l’elezione a presidente della Federazione internazionale delle associazioni calcistiche dello sceicco Salman Bin Ibraim al-Khalifa, capo della federazione locale e di quella regionale asiatica: colui che, con altri colleghi presidenti delle federazioni sportive, esaminava gli ingrandimenti delle fotografie delle manifestazioni, cerchiando i volti degli atleti che vi prendevano parte per poi far scattare anche nei loro confronti manette, carcere e tortura.
*portavoce di Amnesty Italia