di Riccardo Noury
Nel sultanato dell’Oman basta un post per finire in prigione. A febbraio è successo due volte, a conferma che anche in questo stato della Penisola araba, dopo le “primavere” del 2011, gli spazi per la libertà d’espressione si sono fortemente ristretti, anche a seguito di una più rigorosa applicazione dell’articolo 61 della Legge sulle telecomunicazioni del 2002.
Questo articolo punisce “chiunque trasmetta, attraverso i mezzi di comunicazione, un messaggio che viola l’ordine pubblico o la morale pubblica“.
L’8 febbraio il tribunale di Sohar ha condannato Hassan al-Basham, ex diplomatico e parlamentare, a tre anni di carcere per “uso di Internet al fine di arrecare pregiudizio ai valori religiosi” e “insulto al sultano” Qaboos bin Said al Said. Aveva scritto qualche post del tutto innocuo su Facebook e Twitter.
Al Basham, oltre alla carriera istituzionale, ha un passato di difensore dei diritti umani e di promotore di campagne per la scarcerazione dei prigionieri di coscienza. Ha preso parte alla “primavera” del 2011, le cui richieste in Oman erano la creazione di nuovi posti di lavoro e la fine della corruzione.
Il 17 febbraio il tribunale di Salalah ha emesso una condanna a sei mesi di carcere nei confronti dell’artista e ricercatore Sayyd Abdullah al-Daruri, giudicato colpevole di “turbativa dell’ordine pubblico” e “sedizione” per aver pubblicato su Facebook un post in cui sottolineava la sua appartenenza alla regione del Dhofar, teatro negli anni Sessanta e Settanta di una vasta rivolta. Nel suo post, al-Daruri sollecitava “l’unione tra Oman e Dhofar in una sola nazione che sarà chiamata Sultanato unito“.
L’Oman è uno dei luoghi delle periferie del mondo del tutto spenti. Di questa oscurità approfitta il Sultano Qaboos per mandare in carcere i suoi oppositori.