di Vincenzo Vita
Si sono celebrate a Milano le esequie di Umberto Eco e, con la partecipata cerimonia laica, è calato il sipario sull’incredibile storia di un fuoriclasse del lavoro intellettuale, noto nel mondo all’incirca come i Beatles. Rileggere, tra l’altro, il suo “Apocalittici e integrati” (1964) fa bene alla salute mentale e fornisce a coloro che si occupano di comunicazioni di massa categorie analitiche e strumenti cognitivi pressoché perfetti: senza tempo. Una sorta di breviario, che ci accompagna lungo i sentieri dell’Alto, del Medio e del Basso, senza gerarchie prestabilite ma con l’attenzione rabdomantica verso le strategie del desiderio. Per capire ciò che accade sotto la superficie dei segni, e dunque quei rivolgimenti che le élites stentano a comprendere.
Uno dei luoghi dell’azione poliedrica di Eco fu la Rai. Fu un momento particolare per la vita di un’azienda che aveva da essere “di servizio”, non puramente ancorata al mercato. Talmente particolare che i giovani si chiamavano Angelo Guglielmi, Emanuele Milano, Gianfranco Bettetini, Raffaele Crovi, Riccardo Venturini, Piero Angela, Mario Carpitella, Francesca Sanvitale, Fabiano Fabiani, Enrico Vaime, Luigi Di Gianni nel “concorsone” del ’55; Furio Colombo, Gianni Vattimo, Umberto Eco nella selezione dell’anno precedente. Poco dopo fu la volta di Andrea Camilleri. Una Rai pur dominata dall’esprit democristiano e segnata dal clericalismo censorio ebbe il coraggio di aprire i cancelli alle culture contemporanee. Simile esigenza prevaleva sui lacci politici e ideologici. Perché si immaginava per la Rai un futuro da grande fucina, da prima industria dell’immaginario. Il protagonista di tale iniziativa progressista voluta dai conservatori (spesso accade il contrario, come sappiamo) fu il capo-azienda Filiberto Guala, devotissimo tanto all’Onnipotente quanto al bene del servizio pubblico.
A quei nomi corrisposero numerosi dei programmi di successo, dalle rubriche culturali, al varietà, ai famosi sceneggiati. Fino ai quiz, in grado di suscitare un movimento di pubblico come difficilmente è successo in seguito. Fu la fenomenologia di Mike Bongiorno a imporsi, grazie ad Eco che, oltre a scrivere gran parte delle domande dei quiz, riuscì a ricavarne un saggio travolgente, valido per tutti i Mike di ogni epoca. Insomma, un’altra Rai, rispetto a ciò che oggi abbiamo in eredità. Sarebbe opportuno riflettere seriamente sui vari perché del declino, tuttavia il tonfo risulta evidente. Senza ingiuste generalizzazioni, è doveroso prendere atto della realtà. E vogliamo raffrontare –senza offesa per le persone- le nomine dell’epoca con quelle attuali, a partire dalle recenti scelte per la direzione delle reti? E’ la cultura deteriorata, o sono i sensori dei vertici ad essersi offuscati? Ci sono tante più cose tra viale Mazzini e il mondo di quanto la leadership supponga, per parafrasare. Il partito nella nazione ha imposto valium e camomilla. La prova provata della crisi profonda è l’assenza di progettualità, che ridisegni la Carta fondamentale del servizio pubblico nell’era della rete. La Rai di Eco pensava all’alfabetizzazione degli italiani e a conti fatti riuscì nell’intento, pur ammantata di ideologia. La Rai di domani, in fondo, ha un compito simile, declinato con e nell’ambiente digitale. Ciò richiede, forse, anche un nuovo “concorsone”, che porti ad un ricambio coraggioso e non calato dall’alto in modo arbitrario.
Qualche anno dopo Guala prese i voti ed entrò in convento. Chissà se l’odierno amministratore delegato vorrà seguirne l’esempio.