di Livio Zanotti
Dire che le immagini di Cartel Land afferrano le viscere dello spettatore e ci strizzano la sua anima è un linguaggio forte, eppure non ha neanche una sillaba d’iperbole. Le donne piegate sulle fosse in cui la terra ha appena ricoperto i cadaveri mutilati di sposi e padri prima sequestrati e poi torturati si strappano i capelli e davvero preferirebbero -e questo gridano- essere state anch’esse sepolte, distese accanto alle vittime. Le sparatorie crepitano incessanti, gli oltraggi più orrendi puniscono la dignità di quanti resistono: l’ansia che suscitano in chi semplicemente guarda, difficile da sopportare. Appena alleviata dalla legittima reazione delle vittime (da vecchio Testamento, “occhio per occhio” diventa cronaca nera). Viene da girare la testa dall’ altra parte e ricordare l’ammonimento di Walter Benjamin sul pericolo di estetizzare il male: la morte ingiusta si confonde con quella ingiusta ed entrambe escono dalle rispettive realtà, diventando mito. Quand’ anche riesce di sottrarle ogni enfasi, resta il rischio dell’assuefazione.
Premiato al Sundance Festival di Robert Redford, sospinto dal vento turbinoso degli Oscar è arrivato a Buenos Aires il video che presenta il doc-film dell’americano Matthew Heineman sul medico messicano José Manuel Mireles, la cui drammatica sorte è stata fatta presente anche a papa Francesco nel suo recente viaggio nella terra di Montezuma. Una vicenda di apostolato armato e combattente contro la turpe violenza dei narcotrafficanti, non priva di risvolti grotteschi, che tuttavia non ne offuscano la natura sofferta e avrebbe di certo commosso la sensibilità di Miguel de Cervantes. Un medico intorno alla cinquantina lascia il bisturi per le Colt 45 e le mitragliette Uzi che mette al servizio dei suoi concittadini di Tepalcatepec, tra il mare azzurro di Acapulco e Città del Messico. Li organizza per difenderli dai soprusi sanguinosi e umilianti cui li sottopongono senza tregua né pietà i narcotrafficanti riuniti nel cartello dei Templari.
Ci si domanda dove sia lo stato: il Messico è una grande potenza industriale, socio privilegiato degli Stati Uniti e partner commerciale importante dell’economia europea. Le sue forze armate sono numerose e ben armate, al loro interno agiscono però interessi contrapposti: sospetti e prove di corruzione e complicità sono ogni giorno sui giornali, non di tutti ma di più d’uno. Il regista Heineman è andato e rimasto un anno tra le belle architetture coloniali di Tepalcatepec, le campagne e i monti circostanti. E ne ha testimoniato la cupa brutalità esercitata contro i più deboli. Ha filmato giorno dopo giorno la vita tormentata dei suoi abitanti, a cominciare da quella del dottor Mireles, che appare come un clone tra Clint Eastwood e Gian Maria Volontè nei film western di Sergio Leone: sombreros di tre quarti sul volto baffuto e spavaldo. “Basta di attendere che ci vengano a cercare nell’ istante in cui siamo più indifesi…”, dice a un tratto guardando nella camera da presa.
Lo stato si fa infine presente: nel mezzo di sparatorie acerrime tra Templares e la polizia popolare di Mireles che lasciano cadaveri dappertutto, decreta l’assoluto divieto di detenere armamento militare. Ma i narcos sono difficili da scovare. Il dottor Mireles sta invece a casa sua: l’esercito va, perquisisce, sequestra carabine, pistole e lo arresta in flagranza di reato. Per essere certi di non dover tornare un’altra volta, gli trovano anche un po’ di cocaina nell’ auto parcheggiata a pochi metri. Processato e condannato, dal giugno 2014 Mireles è detenuto in un carcere di massima sicurezza nello stato di Sonora, nel nord-ovest messicano. Non se la passa bene. A visitarlo sono quasi soltanto gli avvocati. Dalla moglie si era separato per amore di una bellissima ragazza diciassettenne, bruna dallo sguardo incendiato e avventurosa. Gli si è aggravata la forma di diabete di cui soffriva già precedentemente alla detenzione e ultimamente è stato preso da una travolgente crisi mistica.
Nel celeberrimo testo sacro dell’induismo Bhagavad-Gita (che in Europa ha avuto lettori d’ogni specie, da Nietzsche a Benedetto Croce, a Mussolini, Hitler e alla sua cerchia esoterica), alla vigilia di una battaglia il principe-guerriero Arjuna domanda a Krishna se sia consentito al Giusto commettere ingiustizia per favorire la vittoria della giustizia. Un quesito che il cinema sia di ficcion sia documentario come questo di Heineman declina ormai da lungo tempo con totale disinvoltura. I suoi sempre più numerosi agenti speciali, compresi quelli dotati di maggiore autoironia come James Bond (soprattutto nelle versioni precedenti a quest’ultima interpretata da Daniel Craig), bonariamente o meno travolgono senza batter ciglio ogni regola che possa intralciare l’azione della loro spada al servizio del bene finale. E non sembra che il pubblico dissenta, semmai si ha l’impressione del contrario.
Nella risposta ad Arjuna, Krishna suggerisce al guerriero di “non lasciarsi mai coinvolgere del tutto” (affinchè l’orrore della violenza non si impadronisca di chi la compie. Quando l’azione è particolarmente cruenta, il cinismo deve quindi accompagnare il violento per preservarlo da se stesso.) Nel Messico d’oggi, i poteri separati che ad un tempo colludono e si combattono, hanno sostituito gli antichi guerrieri con spietati sicari che sembrano aver interiorizzato l’idea di Krishna e non c’è nefandezza di fronte a cui arrestino il proprio braccio. Dall’altra parte della vita quotidiana e dell’idea che ciascuno ne ha, spauriti e tuttavia risoluti a non lasciarsi disumanizzare, i ribelli all’ oppressione reagiscono stretti tra la disperazione e l’azzardo estremo.
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