di Cecilia Brighi
segretario generale dell’associazione Italia-Birmania Insieme
Negli ultimi cinque anni, con l’arrivo del primo governo semi civile, in Birmania si era cominciato ad intravedere un processo di apertura politica e sociale, fino ad allora inimmaginabile. La maggior parte dei prigionieri politici era stata liberata, molte leggi repressive erano state modificate, la quotidianità non era più sottoposta a rigidi controlli di polizia e con l’approvazione delle norme che vietano il lavoro forzato, le sanzioni politiche ed economiche UE e USA erano state cancellate. Un segnale importante per la ripresa degli investimenti esteri e la collaborazione delle istituzioni finanziarie internazionali. E poi l’abolizione della censura e delle norme che vietavano la libertà di organizzazione e di assemblea.
Centinaia di organizzazioni della società civile sono cominciate a nascere.
Ma i progressi si sono intrecciati con il permanere di profonde violazioni dei diritti umani. In alcuni Stati etnici i conflitti armati non si sono interrotti, anzi hanno causato lo sfollamento di decine di migliaia di persone. Le tensioni nei confronti dei mussulmani Rohingya non si sono interrotte e hanno continuato a produrre repressione e emarginazione di decine di migliaia di persone nello Stato Rakhine, costrette a vivere in campi profughi, in cui le condizioni igienico sanitarie e alimentari sono al limite della decenza. Molti giornalisti sono stati arrestati con l’accusa di diffamazione, il famoso ex monaco buddhista U Gambira, protagonista della rivoluzione Zafferano del 2007, è stato rimesso in carcere con l’accusa di essere rientrato nel paese illegalmente, con lui ancora decine di studenti e attivisti del lavoro e dei diritti umani. Tutti elementi non percepibili girando per le strade della ex capitale Yangon..
In questo clima contraddittorio, ben rappresentato nell’ultimo rapporto del Relatore speciale ONU sui diritti Umani in Birmania, pubblicato a ottobre 2015, le elezioni politiche del novembre scorso hanno segnato una svolta storica per il paese. Anche i maggiori esperti non si aspettavano una vittoria così travolgente della Lady. L’NLD (Lega nazionale per la democrazia) , partito guidato dalla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ha infatti stravinto, ottenendo il 77% dei seggi disponibili in parlamento (il 25% è appannaggio dei militari). Dopo aver tenuto in scacco per oltre 25 anni una intera dittatura, e dopo oltre 15 anni di arresti domiciliari Suu Kyi realizza così il sogno di un intero popolo, quello di cominciare a realizzare il sogno della libertà.
Certo non sarà possibile voltare pagina in un sol giorno. Tutti sanno che la costituzione voluta dai militari nel 2008 è stata scritta in modo da garantire loro la continuazione del potere. Il parlamento è composto infatti per il 25% da militari nominati. Tre dei ministeri chiave: Difesa, Affari di Confine, Interni sono appannaggio dei militari, come pure il Comitato per la Sicurezza e la Difesa, organismo sovraordinato a governo e parlamento, che può dichiarare lo stato di emergenza e sospendere le istituzioni. Per segnare il cambio di passo, l’NLD ha scelto – ed entrerà in carica il 1 aprile – come presidente Htin Kyaw , da sempre braccio destro della Leader birmana, persona di grande rigore morale e, per sottolineare l’importanza che le minoranze etniche avranno nel nuovo corso, ASSK ha scelto come secondo vice presidente Henri Van Thio, di etnia Chin e come portavoce della Camera un parlamentare di etnia Karen.
Le sfide del domani sono enormi. I militari detengono i posti di potere chiave e in spregio al clima di cambiamento hanno indicato come primo vice presidente Myint Swe, ex Generale, sotto sanzioni in USA per il suo ruolo nella repressione della Rivoluzione Zafferano, e nipote del vecchio potente capo della giunta militare Than Shwe, che si ritiene, voglia ancora cercare di guidare dall’ombra il paese. Una scelta molto criticata dai media birmani.
La mole delle priorità dovrà essere affrontata con grande saggezza ed equilibrio. Tra le prime azioni la leader birmana ha indicato la ripresa dei colloqui per la pacificazione del paese e l’affermazione dei diritti delle minoranze etniche, la costruzione dello stato di diritto e la lotta alla corruzione e poi un impegno per la lotta alla povertà endemica in tutto il paese, l’inclusione sociale e il lavoro dignitoso.
La lista è lunga e molte le insidie. Per questo sarà importante che l’Europa e l’Italia non lascino solo il paese in questa difficile fase di transizione, ma lo sostengano e continuino a monitorare attentamente il futuro. La storia insegna che non basta un voto per cambiare un paese, soprattutto dopo 50 anni di violenta dittatura e che gli enormi interessi economici ancora saldamente nelle mani dei militari non verranno ceduti tanto facilmente. Per questo sarà importante che l’Europa e l’Italia non lascino solo il paese in questa difficile fase di transizione, ma lo sostengano e continuino a monitorare attentamente gli avvenimenti, non abbassando la guardia soprattutto per quanto riguarda la violazione dei diritti umani e la qualità sociale e ambientale dei futuri investimenti esteri che si stanno affacciando nel paese con grandi aspettative.