di Fernando Cancedda
Dovrebbe apparire ovvio, ma non lo è. Il terrorismo è per definizione un’azione dimostrativa, che si propone come obiettivo principale di suscitare emozioni e sentimenti sia nelle popolazioni colpite che tra i fanatici che ne apprezzano l’uso. Reazioni di paura e di vendetta nelle prime, di soddisfazione e di orgoglio nei secondi. Esagero se dico che la gran parte dei titoli dei quotidiani di oggi collaborano involontariamente allo stesso obiettivo? La “guerra all’Europa” è prima di tutto guerra alla ragione e alla dignità umana, da una parte e dall’altra. Tra la barbarie dei terroristi e i muri eretti dall’egoismo nazionalistico davanti a chi cerca un rifugio per sopravvivere, ci sono il volto e il cartello retto da quel ragazzino profugo che appare nella foto: sorry for Brussels, sottolineato da due macchie di sangue.
“Perché usare un kamikaze invece che una bomba attivata da un telecomando?” chiede il collega Cadalanu di Repubblica a Fernando Trementini, ex generale dell’esercito ed esperto di esplosivi. “Vogliono dimostrare che la dedizione al martirio è totale” risponde l’intervistato. Giusto, ma quella è solo la prima parte della risposta. Una risposta completa aggiunge che quella “dedizione al martirio” rende più facile, sicura ed economica non soltanto la singola operazione ma tutta la “campagna” di cui fa parte. Ha ragione Matteo Renzi a dire che per combattere il fanatismo dei terroristi ci vuole l’educazione, purché però quello che intendiamo insegnare non sia contraddetto nei fatti. Libertà, uguaglianza, fraternità non possono restare soltanto parole.
Indicare la causa degli attentati nelle politiche di accoglienza non è soltanto sbagliato. E’ controproducente. Pensare di poter fermare l’immigrazione con filo spinato e cemento, questo sì significa arrendersi, aver perduto in partenza. Secoli di storia lo hanno già dimostrato. Chiunque abbia un po’ di buon senso capisce che la globalizzazione che abbiamo voluto o subìto può funzionare soltanto bloccando e invertendo la rotta delle diseguaglianze crescenti. Altrimenti l’istinto di sopravvivenza dei più deboli è destinato prima o poi ad avere la meglio, a meno che per batterlo non si accetti di rinunciare a tutti i valori su cui pensiamo di aver fondato la nostra civiltà.