di Vincenzo Vita
Il matrimonio tra Mediaset e Vivendi (socio di controllo di Telecom Italia) e l’offerta pubblica di scambio di Urbano Cairo per Rcs Mediagroup ci raccontano un po’ dell’Italia. Sia sul versante della politica dominante, sia su quello dello stato del capitalismo. Del resto, il tenente Colombo ci ha insegnato che i particolari illuminano la scena e fanno comprendere l’ordito generale. Ecco, allora.
La vicenda che attiene all’intesa del duro e conservatore tycoon d’Oltralpe con l’azienda berlusconiana si spiega con tre considerazioni: i contenuti da irradiare sono il piatto prelibato della dieta mediatica nell’era delle numerose piattaforme trasmissive e quindi Bolloré incrementa il suo potenziale nella pay tv ; a maggior ragione nel momento in cui si perfeziona il predominio sull’ex monopolista delle telecomunicazioni; infine, il traballante naviglio del biscione attracca in un porto relativamente sicuro. Il tutto ha sullo sfondo il famoso “patto del Nazareno”, vero e proprio ipertesto, fatto forse di poche righe ma verosimilmente di numerosi allegati. Insomma, il governo lascia fare, dimostrando peraltro un’incomprensibile freddezza verso Telecom, che neanche si sa che ruolo svolgerà nella vicenda della banda larga. Il filo di Arianna delle presenze societarie frutto degli accordi sta dentro i limiti (già labilissimi) antitrust previsti dal Testo unico sulle radiodiffusioni? In ogni caso, come ha dimostrato la fusione tra l’Espresso e La Stampa, le concentrazioni –finora agite con qualche imbarazzo- sono state “sdoganate” e del pluralismo ben pochi si curano, come pure della conclamata concorrenza di mercato. Liberismo la mattina, oligopolio la sera.
Emerge in bianco e nero la crisi seria dell’economia editoriale. Senza nulla togliere al fattivo Umberto Cairo, cresciuto nel tempo e ora arrivato alla serie A del settore, la sua ascesa nell’impero di via Solferino svela la gracilità dell’antica cattedrale della finanza. Il vecchio Cuccia diceva che per prendere i giornali ci vogliono i soldi. Cairo ci avrà certamente pensato e, comunque, ha l’appoggio di banca Intesa. Ma è bene chiarire (l’hanno ricordato i sindacati) quale sarà il piano industriale e se le nuove compatibilità si fonderanno su cospicui tagli del lavoro. A pensar male, ormai, si indovina facilmente. La griglia normativa non impedisce a chi ha un peso nella televisione al di sotto dell’8% del fantomatico Sic (sistema integrato delle comunicazioni) –ed è il caso de La7- di acquisire giornali. Tuttavia, meglio sarebbe avere una netto divieto di incrocio tra stampa e televisione, per valorizzare i soggetti nativi digitali. Il futuro è bloccato proprio dalle culture e dalle pratiche dei trust.
Il panorama movimentato ma conservativo della comunicazione esigerebbe una scossa. Per esempio, andrebbe ripresa l’elaborazione sullo “Statuto dell’impresa giornalistica”, per garantire autonomia e indipendenza dell’informazione. L’occasione c’è, se si vuole. Ricomincia l’iter della riforma dell’editoria, al senato in seconda lettura. E’ un testo con vari difetti, e soprattutto assai limitato nei confini troppo angusti dell’articolato. A trentacinque anni dalla legge 416, che disegnò la fisionomia dell’allora intraprendente stagione analogica, è urgente sollevare la testa e guardare avanti. I mutamenti in corso consegnano un ambiente impaurito e difensivo, ossessionato dai giganti della rete. Con i quali, però, né molto ceto politico né universo imprenditoriale sembrano ancora aver capito a che gioco si gioca.