di Antonella Napoli
Da Washington a Roma, attivisti di tutto il mondo e rifugiati sudanesi hanno manifestato per richiamare l’attenzione dei media e delle istituzioni sulle nuove violenze in Sudan.
Nella capitale l’organizzazione Italians for Darfur e i rifugiati sudanesi in Italia, con il supporto di Articolo 21 e della rete “Illuminare le periferie”, hanno animato un flash-mob al Colosseo, luogo simbolico per le battaglie sui diritti umani.
Una delle ultime vittime del regime sudanese era uno studente universitario che non aveva ancora compiuto 18 anni. La sua colpa, manifestare contro gli abusi e le violazioni dei diritti umani in Darfur, regione del Sudan insanguinata da oltre 13 anni di guerra che hanno causato la crisi umanitaria più lunga, ancora in corso, nel mondo.
Solo nei primi tre mesi dell’anno, centinaia di villaggi distrutti, 150 mila persone costrette alla fuga e un migliaio di morti.
La coalizione di organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani che dal 2004 promuove il ‘Global day for Darfur’, di cui fanno parte tra le altre Amnesty International, Save Darfur Coalition e per il nostro Paese Italians for Darfur, ha indetto una settimana di mobilitazione per riportare l’attenzione del mondo sulle crisi umanitarie e i conflitti in Sudan.
Che ormai la situazione in Darfur sia fuori controllo lo testimonia anche l’ultimo rapporto presentato da International Crisis Group, autorevole centro di ricerca specializzato nell’analisi dei conflitti e nella proposta di soluzioni sostenibili.
Il documento conferma, sostanzialmente quanto anticipato da Italians for Darfur nel report annuale presentato lo scorso febbraio al Senato, nel corso di un’audizione in Commissione Diritti Umani.
Nei primi tre mesi del 2016 il dato relativo ai nuovi sfollati è praticamente triplicato a causa della recrudescenza del conflitto nell’area montuosa del Jebel Marra, dove si sono stabiliti i guerriglieri del Sudan liberation movement.
Per stanare i ribelli il governo ha intensificato da gennaio l’azione militare. Gli attacchi hanno determinato in poche settimane il tracollo della situazione umanitaria.
L’assistenza ai profughi, per lo più donne e bambini, già carente in tutto il Darfur, è drasticamente peggiorata.
Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d’acqua e di cibo, condizioni igienico sanitarie e sicurezza inadeguate.
La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini il 60% non raggiunge il sesto anno di vita. Eppure non se ne parla.
La mobilitazione del 2016 è stata caratterizzata da dimostrazioni in varie capitali mondiali, promosse dalla coalizione internazionale Women Darfur Action.
I racconti dei profughi, sia dei monti Nuba, nel Sud Kordofan, sia del Darfur, riportano di continui assalti delle Rapid Support Forces (prima conosciute come janjaweed) seguiti in molti casi da raid aerei delle forze aeree sudanesi che hanno coinvolto milioni di persone nei villaggi e nei campi profughi che accolgono gli sfollati.
A dieci anni dalla fine della guerra ultraventennale tra Nord e Sud in Sudan, che ha causato la morte di due milioni di persone e ha portato alla separazione del Sudan cristiano da quello musulmano, nel Paese si continua a morire nell’indifferenza del mondo.
In Darfur si contano già 400 mila vittime e le violenze continuano. Il mondo non può restare a guardare mentre in Sudan si stanno consumando nuovi massacro e deve impedire che la missione di pace dispiegata nella regione nel 2008 venga sospesa come chiesto dal presidente Omar Hassan al-Bashir.
Bisogna intervenire ora perché domani è troppo tardi.