di Vincenzo Vita
La proposta di legge votata in seconda lettura dalla Camera dei deputati su “la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo” ha diverse insidie e ambiguità. O, meglio, è un classico caso di eterogenesi dei fini. Si è partiti da un’esigenza più che nobile –frenare quanto possibile una delle piaghe criminose della società digitale- per finire nella messa in causa delle libertà della e nella rete.
Naturalmente, anche le parole vanno misurate nell’agire simili argomenti. E’ troppo devastante lo scempio di vite e di coscienze che un reato così squallido provoca nel tessuto sociale, minori o meno che siano le vittime. Da ultimo, purtroppo solo in ordine di tempo, i casi della giovane disperata Tiziana arrivata al suicidio per la reiterata diffusione di immagini hard in cui era coinvolta o della 17enne di Rimini stuprata e offerta da qualche amica sciagurata al voyeurismo in salsa social. Quindi, è comprensibile l’animo risarcitorio che ha sospinto i deputati. Peccato, però, che i testi normativi, quando si distaccano dalla contingenza emergenziale, rimangono scolpiti nel corpo complessivo del sistema giuridico. Dove vale l’ottica “generalista”, che riguarda coloro che magari poco hanno a che fare con un orrendo delitto perseguito. Nell’articolato varato a Montecitorio cade la distinzione tra minorenni e adulti, titolati questi ultimi a chiedere l’immediata rimozione dei contenuti ritenuti lesivi. E se i gestori (descritti in maniera vaga, come ha sottolineato il forzista Antonio Palmieri) non provvedono, ecco che interviene d’ufficio il Garante per la protezione dei dati personali. Quindi, entrano in gioco i “grandi” e i reati previsti hanno una tale ampiezza di confini, da configurare bavagli e censure: l’oscuro oggetto del desiderio dei molti che da anni ronzano attorno alla rete per randellarla, non comprendono spesso linguaggi e sintassi. Non si esagera. Che significa in italiano la parola “offese”, inserita nella riscrittura dell’articolo 1? Il salto verso la persecuzione di opinioni ritenute contrarie alle proprie è possibile e niente affatto lontano dalla realtà. Così la potenziale interpretazione si stacca dal solco del bullismo. L’ha spiegato bene in aula Giovanni Paglia di Sinistra italiana. Per non dire dei casi sanzionabili senza essere ancora reati o degli aggravamenti delle pene, che le politiche criminali avvedute sanno essere pressoché ininfluenti nei confronti dei rei accaniti: su cui nella migliore delle ipotesi hanno l’effetto delle grida manzoniane. Se non persino di un invito al corpo a corpo muscolare con la cosa pubblica.
Insomma, ci si ripensi, nel terzo atto previsto al Senato, che aveva varato un progetto migliore a prima firma Elena Ferrara.
Tuttavia, è essenziale porsi una domanda. La legislazione classica, figlia dell’età analogica, riesce ad applicarsi al contesto digitale? I drammi che fanno da sottotesto all’articolato varato si risolvono nella rete? Un po’ certamente sì, attraverso un’opera di impegno civile e morale dei “navigatori” per bene, la stragrande maggioranza. I criminali e i bulli vanno isolati, respingendoli ai margini della comunità. In rete l’affidabilità è tutto, del resto. Non basta, però. E’ ora di interrogarsi su come si affronta il territorio della rete, dove ci sono potenti proprietari cui va imposta un’attenzione preventiva. Perché quelle immagini di Tiziana artatamente girate non sono state bloccate, pur esistendo strumenti giuridici che avrebbero potuto essere utilizzati?