di Riccardo Cristiano
Marzo è un mese importantissimo per il Levante. Il 14 marzo più di ogni altro giorno del mese. Infatti il 14 marzo del 2005 più di un milione di libanesi, su tre milioni, scendevano in piazza per la loro rivoluzione nonviolenta, nel nome del sangue versato un mese prima dal loro premier, Rafiq Hairir, e altri 22 che viaggiavano con lui per le strade di Beirut.
Quella rivoluzione nonviolenta che ha coinvolto libanesi di ogni fede ed etnia era nel nome del vivere insieme e quindi contro i loro nemici, a cominciare dai mandanti ed esecutori di quella barbarie che- usualmente- si era goffamente tentato di attribuire ad al-Qaida. E invece le carte del tribunale penale internazionale indicano chiaramente il mandante nel regime di Damasco, presieduto al tempo da Bashar al-Assad, e gli esecutori materiali in quattro operativi di Hezbollah, incriminati all’Aja ma latitanti.
Si è aperta in quel drammatico 14 febbraio una tragica mattanza di intellettuali e politici al cui centro sono stati soprattutto i cristiani, rei di essersi schierati contro il regime di Damasco che al tempo gestiva e voleva seguitare a gestire il Libano come un proprio protettorato. Samir Kassir, intellettuale arabo tra i più noti al mondo, è stato tra le vittime più illustri di quella mattanza a cielo aperto che si è protratta fino per oltre un anno. Gebran Tuéni, editore del prestigioso libanese an-Nahar, il suo amico e compagno di lotte più noto. Ma sono tantissimi altri i nomi di quanti morirono uccisi per le strade di Beirut, da un terrorismo che sembra dimenticato, o guardato addirittura con qualche comprensione.
Il silenzio, la dimenticanza nella quale è stata abbandonata la primavera libanese, indica tanti motivi della deriva del Levante; l’incapacità di seguire e affiancare un movimento di popolo e nonviolento, nato e rimasto nonviolento, ha facilitato il compito di chi negli anni seguenti ha voluto la radicalizzazione e la militarizzazione di tutto l’onda di protesta levantina, nata libertaria e pluralista come indicato chiaramente dalla piazza di Beirut nel 2005 e dall’impegno dei suoi martiri.
I martiri di Beirut sono dimenticati, e quindi sono dimenticati i “presunti” responsabili di quei crimini, che figurano sul banco degli imputati in un processo che ha ricostruito minuto per minuto come venne seguito e poi assassinato Rafiq Harir; ma pochi sembrano avere voglia di concludere davvero il giudizio in corso all’Aja.
E allora è bene ricordare tutte le vittime del 2005, di quel tremendo urto di sangue, terrorismo e violenza che è stato colpevolmente rimosso. Perché è molto difficile accettare che in questa epoca nella quale si sembra alla ricerca dell’impossibile filo che distingue terrorismi buoni e terrorismi cattivi non ci sia traccia di chi è stato ucciso, nel Levante, per il suo impegno politico e culturale nel nome del vivere insieme. Ma per quanto sia difficile accettarlo, da anni in tante riflessioni sul quella terra martoriata non c’è traccia di Georges Hawi, comunista e di famiglia cristiana, ucciso a pistolettate nel 2005, non c’è traccia di Samir Kassir, progressista e di famiglia cristiana, ucciso con dell’esplosivo posto nella sua auto nel 2005, non c’è traccia di Pierre Gemayyel, liberale e di famiglia cristiana, assassinato nel 2005, non c’è traccia di Gebran Tueni, editore e di famiglia cristiana, ucciso con un’auto bomba nel 2005, non c’è traccia di Antoine Ghanem, deputato anche lui di famiglia cristiana, ucciso con attentato dinamitardo mentre viaggiava in auto a Beirut. Ovviamente lo stesso vale per il deputato sunnita Aido, ucciso sul lungomare di Beirut.