di Daniela Oberti, infermiera MSF nel campo di Idomeni
La situazione è sempre più drammatica al campo di Idomeni: più di 12 mila persone, di cui il 50% sono donne e minorenni. Altre 23mila circa sono in altri campi, città o isole della Grecia, tutti in attesa delle decisioni sul “border” dal quale dipenderà la loro sorte.
Dopo ormai dieci giorni di pioggia, freddo e fango, oggi è finalmente tornato il sole. Non l’ho mai desiderato tanto. Ci sono persone ferme al campo da 15, 20 giorni, forse più. Le loro condizioni di salute stanno peggiorando. Chi è sano si ammala per il freddo: tosse, bronchiti, mal di gola, ma anche vomito, diarrea. Chi era già malato, per una patologia cronica, o chi è più debole, come neonati, anziani, disabili, donne incinte, corre grossi rischi!
L’ambulatorio “Free Doctor”
L’ambulatorio è sempre pieno, lavoriamo no-stop, con turni che coprono giorno e notte, 2000 consultazioni a settimana. Il personale aumenta, ma non basta mai, perché nell’ultima settimana i casi gravi, le emergenze da mandare in ospedale sono aumentati: donne incinte che svengono, bambini con convulsioni per la febbre alta, attacchi d’asma, infarti, attacchi di panico.
Perché lasciare queste persone al freddo e far sì che si ammalino? Ci sarebbero state tutte queste emergenze se queste persone fossero state in un riparo caldo e protetto?
Idomeni è una gabbia a cielo aperto, poco spazio, tanta gente, troppa. Ognuno reagisce a modo suo allo stress di questa stretta convivenza, che va a sommarsi al passato violento e all’incertezza del futuro. C’è chi si arrabbia, chi piange, chi si dispera, chi si rifiuta di parlare e mangiare…Io sarei già impazzita…C’è anche si cerca una quotidianità normale: fare legna per il fuoco, giocare a pallone, radersi la barba, fare il bucato, vendere sigarette o pentole.
I papà di Idomeni
Un papà siriano ha portato la sua bimba, di nome Syria, in ambulatorio per un’eruzione cutanea. Lei, bionda e occhi azzurri, era impaurita dai miei guanti. Vengono da Aleppo, il papà mi mostra le braccia piene di cicatrici rosse e mi dice che sono l’effetto delle bombe lanciate sulle loro case dai raid russi un mese fa. “Grazie a Dio siamo vivi: io, mia moglie e i miei quattro figli”, conclude.
È quasi sera quando ci portano un uomo sui 30 anni, incosciente, che delira, serra la bocca e strizza gli occhi. Emette solo versi. Ha le mani e i piedi molto freddi. Lo copriamo con la coperta termica e poi quella di lana. Proviamo pressione arteriosa, frequenza cardiaca, ossigenazione del sangue, glicemia, temperatura: tutto è nella norma. Chiediamo informazioni ai due accompagnatori, due uomini, suoi amici. Ci dicono che da due settimane è nella tenda, non parla e mangia poco. È da solo lui con un bimbo di 3 anni. La moglie è morta in Siria. Cerchiamo di calmarlo, di parlargli piano. Chiamiamo la psicologa che le parla cautamente.
Finalmente apre gli occhi, accetta di stare sul lettino della sala di osservazione e riposare. Dopo poco si addormenta. Come un bambino sfinito dopo aver pianto a lungo. I due amici restano sempre con lui, sono molto preoccupati. Ci chiedono se possiamo fare qualcosa per lui e il suo bimbo. Se possiamo chiedere alle autorità macedoni di aprire il confine per un’eccezione, perché non può restare in questa situazione nel campo. Gli rispondiamo che il “border is closed” e non possiamo fare nulla. Solo offrirgli il supporto dei nostri psicologi.
Sono persone forti
Tante storie, ci sarebbe da scrivere un libro intero. Sono persone forti, penso. A volte mi chiedo come abbiano fatto a sopravvivere nel loro Paese e al viaggio, soprattutto quando vedo anziani, persone in carrozzella senza arti. Non hanno forse già sofferto a sufficienza?
Dovremmo accoglierli dignitosamente, invece i muri e i fili spinati crescono ogni giorno aggiungendo nuova sofferenza alla sofferenza passata. Tutti necessiterebbero di un supporto psicologico. Sono uomini e donne come noi. L’unica differenza tra me e loro è che io ho la fortuna di essere nata e vivere in un Paese in pace. Loro hanno avuto la sfortuna di nascere o aver vissuto nel Paese sbagliato o nel momento sbagliato della Storia.
C’è chi racconta di una Siria bellissima prima della guerra. Vorrebbero tornarci, ma anche laddove non ci sono bombe, mancano ospedali, fornitura di cibo, di beni di prima necessità, scuole, rete idrica, fognaria. Un Paese tutto da ricostruire.E poi c’è chi viene dall’Iraq: insicurezza e attentati continui, la paura dell’ISIS. E chi viene dall’Afghanistan? E la Somalia? L’Etiopia? La Libia? L’elenco purtroppo è lungo…
Un’Europa che sappia accogliere
Ogni giorno auto di greci e volontari da ogni dove arrivano con vestiti, pannolini, pane, giocattoli… credo che questa sia la vera Europa: persone che capiscono la sofferenza altrui e cercano di mettere una toppa laddove qualcuno ha dato uno strappo. Voglio credere nella forza dell’uomo, capace di ‘compatire’ l’altro, di andare oltre le decisioni politiche e del filo spinato.
Il futuro non promette bene in merito a guerre, dittature, disuguaglianze e limitazione della libertà. Le persone, quindi, saranno sempre più obbligate a scappare, in cerca di una vita migliore, sicura, tranquilla per sé e i propri figli. Dobbiamo essere pronti a creare un terreno ospitale. Queste persone potevamo essere noi. Incontro anche infermieri, medici siriani che parlano bene l’inglese, mi dicono chiaramente il loro problema di salute, il farmaco di cui necessitano. È come parlare con dei colleghi dell’ospedale di Bergamo, li sento molto vicini per studi fatti e lavoro svolto. Spesso mi chiedono se possono rendersi utili per aiutare come volontari nell’ambulatorio.
In questa festa del papà penso ai due papà siriani incontrati, ma anche a tutti gli altri che si sentono la responsabilità di offrire un luogo sicuro e un futuro dignitoso alla loro famiglia: a quei papà che a volte piangono in ambulatorio, che sono preoccupati per la febbre del loro bambino, che cercano un posto nella tenda riscaldata, che fanno la lunga fila sotto la pioggia per prendere il cibo e poi la fila per le coperte…