di Stefano Lamorgese
Perchè sentiamo più distanti le vittime di Ankara? La risposta di Stefano Lamorgese, Vicepresidente Associazione Amici di Roberto Morrione, a James Taylor che nel web si chiedeva che cosa avremmo detto – della bomba che ha provocato la strage di Ankara del 13 marzo scorso – se fosse esplosa a Piccadilly Circus, a Londra; o in una via centrale di una qualsiasi altra città britannica.
“La fratellanza difficile”
Multas per gentes et multa per aequora vectus
(Molti popoli e mari ho attraversato)
advenio has miseras, frater, ad inferias,
(sono qui davanti alle tue misere spoglie, fratello)
ut te postremo donarem munere mortis
(per renderti l’ultima offerta della morte)
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
(e per parlare invano alla muta cenere)
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
(perché il destino proprio te, ahimè, mi ha portato via)
heu miser indigne frater adempte mihi,
(infelice fratello mio, ingiustamente strappatomi via!)
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
(Ora questi pegni, che secondo il costume degli avi)
tradita sunt tristi munere ad inferias,
(sono stati consegnati come triste omaggio funebre,)
accipe fraterno multum manantia fletu,
(accettali: sono bagnati dalle lacrime di tuo fratello,)
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.
(e, per sempre, fratello mio, ti saluto: addio.)
È il celebre carme 101 di Gaio Valerio Catullo, il poeta latino che è forse più noto per i suoi disordinati amori con Lesbia che per la meravigliosa, profonda eleganza del suo artificio poetico.
Gli storici raccontano che il fatto accadde intorno al 57 a.C. in Bitinia, l’attuale Turchia: lì, non lontano dall’antica Troia, Catullo pregò sulle ceneri del fratello, ormai fredde da tempo, recando con sé segni e simboli tradizionali del lutto familiare.
C’è da chiedersi perché un componimento che risale a quasi duemila anni fa ci restituisca, ancora intatta, una testimonianza poderosa di ciò che agita l’universo intimo di un essere umano che ha perso un fratello. Perché, grazie ai versi di Catullo, sentiamo quella morte e quel dolore come se fossero, un po’, anche i nostri? Quale potenza ha la poesia, capace di evocare sentimenti eterni a distanza di secoli e secoli!
Ma veniamo a noi, ai nostri tempi, pur rimanendo in Turchia.
Di fronte alla strage di Ankara del 13 Marzo – 37 morti e più di cento feriti – c’è qualcuno che si chiede come mai l’Occidente non abbia reagito con la medesima empatia scaturita dai nostri cuori dopo gli attacchi di Parigi.
Lo fa – con un successo incredibile – un certo James Taylor sul suo profilo Facebook: ne ha parlato Corinna Spirito su Repubblica.it .
Il post del cittadino britannico sfiora la ragguardevole cifra di 115.000 condivisioni, adesso. E ha guadagnato più di novemila commenti. Nel “mondo social”, sono numeri significativi.
Ma che cosa contiene, quel post?
Denuncia l’indifferenza del mondo rispetto ai morti di Ankara, rispetto all’entusiasmo funebre seguito agli attentati di Parigi. Si chiede, Taylor, che cosa ne avremmo detto – della bomba che ha provocato la strage – se fosse esplosa a Piccadilly Circus, a Londra; o in una via centrale di una qualsiasi altra città britannica.
«Pensate alla vittime, scrive. Immaginate che fossero inglesi. Che fossero le persone che incrociate ogni giorno… famiglie, poliziotti, studenti, artisti, coppie. I vostri amici. Le vittime turche non sono diverse. C’è solo il fatto che sono turche».
Messa così, è facile immaginare che la porta che Taylor ha cercato di sfondare fosse già aperta. Anche per questo sono piovute sul suo profilo, così numerose, le adesioni.
Eppure, per chi ha studiato un po’: quei morti sono solo (ancora!) “ottomani”. Per chi non ha studiato sono, peggio, “soltanto” musulmani. Nessuno è disposto ad ammettere che ciò che accade “lontano da casa”, anche se è un fatto orrendo, tutto sommato non lo colpisce troppo in profondità. A nessuno piace dichiararsi indifferente alla sofferenza altrui. Nessuno ama ammettere i propri pregiudizi. Si fa una brutta figura.
Scrisse un tempo Raymond Chandler che “la maggior parte della gente vive consumando la metà della sua energia nel tentativo di proteggere una dignità che non ha mai posseduto”. Un’opinione severa, certamente. Molto hard-boiled. Ma c’è del vero, soprattutto nel mondo-vetrina dei social network, nel quale un “like” costa meno di un’elemosina al semaforo.
E poi bisogna aggiungere che quanto accoratamente affermato da Taylor è, almeno in parte, falso: «Turkey is not the Middle East. Ankara is not a war zone, it is a normal modern bustling city, just like any other European capital».
Le cronache dei nostri giorni raccontano una realtà diversa.
Forse ad Ankara non succede tanto spesso, ma nel resto del paese di Erdogan si muore di morte violenta ogni giorno; i giornali dell’opposizione al governo di Ankara vengono requisiti e “ripuliti”, gli avversari politici del regime di Ankara vengono messi in galera, le elezioni politiche per formare il parlamento di Ankara si sono celebrate sotto un agguerrito controllo poliziesco, Öcalan, vecchio leader del PKK, è rinchiuso in una galera oscura da diciassette anni, la regione kurda è assediata e minacciata dall’esercito di Ankara, il processo di islamizzazione forzata della società procede a passi veloci e violenti, ogni giorno.
Che i morti innocenti siano tutti degni delle medesima pietà e indignazione è un pensiero giusto e un sentimento condivisibile. La fratellanza di Catullo non è diversa dalla nostra. chiunque sia il morto da compiangere ma se non c’è – in merito ai fatti di Ankara – il medesimo transfert che si è generato per Parigi, c’è più di una ragione. Confessabile o no, c’è.
Stefano Lamorgese