di Olivia Vecellio
Inaugurato a Bir Zeit il primo grande museo realizzato sotto occupazione. Per il Direttore “oltrepasserà le frontiere politiche e geografiche per mettere in collegamento tutti i palestinesi, in patria e in esilio”.
Birzeit, 18 maggio 2016, Nena News – Lo scorso 3 maggio Mahmoud Hawari è stato nominato Direttore Generale del Palestinian Museum dalla Taawon-Welfare Association, principale finanziatore e promotore del progetto. Curatore Capo del British Museum e Ricercatore Associato al Centro di ricerca Khalili dell’Università di Oxford, Hawari è specialista di arte islamica, architettura ed archeologia del Medio Oriente pre-moderno, nonché esperto in museologia e gestione del patrimonio culturale, con expertise su quello palestinese.
Il nuovo direttore dovrà affrontare una grande sfida: trasformare il Museo Palestinese in un’istituzione faro non solo per quanto concerne la cultura palestinese -attraverso ricerca, mostre, programmi educativi e collezioni – ma anche per l’intero mondo dei musei, dato che uno degli scopi è di consolidare un nuovo paradigma museale: creare una piattaforma poliedrica e multi-disciplinare in cui dar voce a prospettive plurime su una realtà che di fatto è complessa, articolata in questioni individuali e collettive.
Questo è uno degli obiettivi principali secondo Omar Al-Qattan, responsabile della Taskforce che ha guidato fin qui il museo, e che ci ha accordato un’intervista: “Sono molto fiero che l’edificio principale del museo sia ultimato nei tempi previsti e che l’inaugurazione si tenga il 18 maggio, qualche giorno dopo l’anniversario della Nakba del 1948, quando oltre 750.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono alla creazione dello Stato di Israele. Un altro obiettivo è trasformare il museo in un catalizzatore che consenta ai palestinesi in patria ed in esilio, ovunque vivano, di raccontare la loro storia ed esprimere il loro legame con la madre patria. Vogliamo un museo che sia un attore di empowerment, un acceleratore di creatività”.
Questo museo da 28 milioni di dollari è una struttura a risparmio energetico certificata Leed-argento. Le sue facciate in pietra e vetro traggono ispirazione dal paesaggio a terrazzamenti con cui si confondono, fiancheggiate da meravigliosi percorsi pedonali tra giardini di olivi e piante native. Disegnato dal pluripremiato studio dublinese Heneghan Peng, individuato grazie ad un concorso internazionale, l’edificio si trova 23 km a nord di Gerusalemme, in pieni Territori Occupati. I 40mila mq di terra su cui insiste sono stati concessi dall’Università di Bir Zeit, che sarà uno dei partner principali del museo, dato che la ricerca ne è uno dei centri nevralgici di interesse.
Molte altre partnership sono in corso di definizione, in particolar modo mirate a individuare istituzioni all’estero che possano ospitare le prossime mostre o parte delle collezioni permanenti. Queste verranno decentrate per ragioni di sicurezza, per evitare possibili confische o ingerenze da parte di Israele.
Omar Al-Qattan non prende giri di parole: “La Palestina non è uno stato sovrano. Se considerate la sua frammentazione geopolitica, non c’è da stupirsi che inaugureremo uno spazio vuoto e che avremo bisogno di tempo, pazienza e determinazione per arrivare ad avere delle collezioni permanenti. Ma da qualche parte bisogna pur iniziare.. La nostra prima mostra sarà al di fuori della Palestina, parte di una strategia volta a definire un network con una casa-madre nei Territori Occupati – il museo – con molti programmi e spazi satellite collegati”.
Beirut ospiterà infatti “Nelle cuciture: per una storia politica del ricamo palestinese / At the Seams: a Political History of Palestinian Embroidery” (spazio culturale Dar El-Nimer, 25 maggio – 30 luglio 2016), una mostra “satellite” curata da Rachel Dedman che esplora non solo l’importanza politica prima del 1948 ma anche le trasformazioni che il ricamo ha avuto nei decenni successivi, fino agli inizi del ventunesimo secolo. Elementi chiave dell’indagine riguardano l’omogeneizzazione dell’abito ‘thobe’ pre- e post- 1948; il ricamo e lo stile della donna palestinese nella Beirut degli anni Sessanta; il ricamo come elemento di una Palestina storica idealizzata da parte degli artisti della liberazione o come forma di resistenza; le figure femminili politicizzate dei vestiti dell’Intifada, fino alle forme contemporanee di ricamo sperimentate dai giovani artisti e designer palestinesi.
Nel corso di questo 2016 è inoltre previsto che il Museo Palestinese lanci altri due programmi fondanti: l’archivio audiovisivo digitale e “Viaggi Palestinesi”, una linea del tempo interattiva dal 1850 ad oggi sviluppata in collaborazione con l’Istituto di Studi Palestinesi e lo studio di design Visualising Palestine. Questa cronologia sarà disponibile al museo e online, presentando in modo critico e vivace le diverse prospettive esistenti sugli accadimenti storici in Terra Santa.
Saranno proprio le collezioni e le piattaforme digitali, oltre al lavoro di networking, che favoriranno la condivisione di abilità, risorse, programmi e mostre a livello mondiale, superando le restrizioni di movimento – checkpoint, il muro, le umiliazioni e la violenza, solo per citarne alcune – subite quotidianamente dai palestinesi a causa dell’occupazione israeliana.