di Antonella Napoli (Italians for Darfur)
Sapevamo da tempo che i carnefici dell’Arabia Saudita avrebbero iniziato il nuovo anno con un’esecuzione di massa. Ma la circostanza che alcuni dei 47 giustiziati, tra cui lo sceicco sciita Nimr al Nimr, fossero dei terroristi o semplicemente ritenuti tali, vista la volatilità delle imputazioni e dei processi sommari ai quali sono stati sottoposti, ha messo la sordina quanto tutti, quanto meno chi segue le vicende legate alle violazioni dei diritti umani, ci aspettavamo. Tranne Articolo 21 che con un pezzo della sottoscritta un mese fa, il 2 ottobre, denunciava questo e altri orrori sauditi che non si poteva né doveva ignorare.
Oggi la cortina di silenzio si è improvvisamente dissipata. In molti ricordano che il 2015 è stato un anno particolarmente impegnativo per i boia del regno di re Salman bin Abdulaziz Al Saud: sono state decapitare quasi il doppio delle persone rispetto al 2014, 158 contro le 90 dell’anno precedente. Il record degli ultimi vent’anni, come segnalato da varie organizzazioni per i diritti umani.
Il numero dei prigionieri messi a morte per ‘reati non letali’, come l’uso di droghe illecite o reati di ‘cattiva condotta sessuale’, sono aumentati: 63 detenuti trovati in possesso di stupefacenti sono stati giustiziati a partire dal novembre di quest’anno, il 40 per cento degli omicidi di Stato sauditi. Solo cinque anni fa erano meno del 4 per cento.
Insomma siamo di fronte a un’ondata di esecuzioni che possiamo definire una nuova, truce, pietra miliare per quanto concerne l’utilizzo della condanna a morte.
“Le autorità saudite sembrano intenzionate a non fermarsi e a continuare una baldoria di esecuzioni sanguinose, una media di una persona ogni due giorni”, ha commentato James Lynch, vice direttore per il Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International.
“L’uso della pena di morte è ripugnante in ogni circostanza, ma è particolarmente allarmante che le autorità saudite continuino ad usarlo in violazione delle leggi e gli standard internazionali sui diritti umani, su vasta scala e al termine di processi gravemente iniqui e a volte politicamente motivati”.
L’ultima volta che l’Arabia Saudita aveva eseguito più di 150 condanne capitali era stata nel 1995, quando furono registrate 192 esecuzioni. Risaliva invece al 1979 la più recente esecuzione di massa, anche in questo caso come quella del 1° gennaio di quest’anno per reati contro la sicurezza dello Stato e per terrorismo, avvenuta nella Grande Moschea della Mecca.
Il regno di Salman è da tempo tra i primi cinque paesi più prolifici per quanto concerne l’emissione di pene capitali.
Nell’ultimo rapporto, Amnesty rilevava che la condanna a morte in Arabia Saudita è usata in modo sproporzionato, in particolare contro gli stranieri. Delle 63 persone giustiziate quest’anno per reati legati alla droga, 45 erano stranieri, per lo più lavoratori stranieri provenienti da sud-est asiatico. L’organizzazione per i diritti umani ritiene che questo gruppo etnico sia particolarmente vulnerabile dal momento che, in genere, non parla arabo e nel corso dei processi viene negata una traduzione adeguata.
Il record delle esecuzioni degli ultimi due decenni avviene durante il primo anno di reggenza del re Salman, salito al potere dopo la morte di re Abdullah nel gennaio 2015. Appena assunto il potere, Salman ha nominato un nuovo e più intransigente ministro della Giustizia e ha posto funzionari rigorosi, a lui fedeli, in posizioni di potere in tutta la burocrazia statale.
I suoi primi provvedimenti e azioni non hanno sorpreso osservatori e analisti delle vicende saudite, viste le difficoltà del mantenimento degli equilibri politici di corona, istituzioni, apparato amministrativo e famiglia reale.
Abdullah mostrava un’inclinazione, o quanto meno questa era l’immagine di sé che voleva far passare, di innovatore. Era riuscito a convincere molti dei suoi alleati occidentali di aver avviato un processo di riforme all’interno del medievale sistema sociale e politico saudita. Ma in sostanza poco aveva fatto ed era cambiato sotto la sua reggenza, tranne la concessione del voto alle donne e la possibilità di candidarsi dal 2015.
E ancor meno muterà con il suo successore, la cui ascesa al trono è stata interpretata come un passo indietro, rispetto alla gestione del predecessore. A parte l’austerity che Riad si è di recente imposta con sostanziosi tagli di spesa per contrastare il calo del gettito petrolifero, difficilmente il nuovo regnante darà corso a qualsivoglia riforma. Anzi appare chiara la sua intenzione di perseverare con la consueta visione della sicurezza e della stabilità interna, fondata sull’impedimento di ogni progresso culturale, di qualsiasi spinta innovatrice che abbia anche solo lontanamente l’audacia di mettere in dubbio la legittimità e la continuità del sistema familiare del regno.
E la pena di morte, deve essere il convincimento di re Salman, è lo strumento che più di ogni altro possa garantire tale continuità.