di Gian Mario Gillio
Queste tendenze emergono dal IX Rapporto sulla sicurezza in Europa, curato da Demos e dall’Osservatorio di Pavia, insieme alla Fondazione Unipolis. La nostra intervista al sociologo Ilvo Diamanti
Professor Diamanti, su Repubblica lei scrive che in materia di rifugiati e richiedenti asilo gli italiani hanno paura: «via Schengen, sì alle frontiere». Sino ad oggi credevamo di primeggiare in tema di accoglienza in Europa. Non è così?
«Non è una novità clamorosa la nostra indagine. In effetti l’apertura delle frontiere, come oggi ho scritto, costituisce ed ha costituito un risultato importante, forse addirittura più importante della costituzione della moneta unica nel processo unitario, ossia di Europa unita. La moneta infatti riguarda il mercato, che sicuramente ha a che fare con la vita quotidiana delle persone e dell’economia più in generale, ma la moneta e i mercati non hanno frontiere né confini, non ne hanno mai avuti. Le persone ovviamente sì. I capitali possono viaggiare senza che nessuno chieda loro il passaporto, le persone sono soggette invece a tale controllo. Viviamo in un tempo di grandi movimenti e dunque è comprensibile che la discussione focalizzata sulla situazione europea faccia emergere nuove paure, di cui abbiamo voluto dare conto proprio oggi con la nostra indagine; da dieci anni lavoriamo su questi temi con Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis. Abbiamo rilevato che il flusso e la gerarchia delle incertezze e delle paure che pervadono le persone è sensibilmente aumentato proprio in questi ultimi anni. Il Rapporto che presenteremo il prossimo 15 marzo a Roma presso la Camera dei Deputati, mostra l’esistenza e l’evidenza di un grado di insicurezza generalizzato, molto elevato. Ovviamente questo grado di insicurezza non riguarda solamente l’Italia: c’è infatti in tutta Europa una grande maggioranza di persone che ritiene che il Trattato di Schengen debba essere quantomeno ridimensionato».
I numeri in Italia a tal proposito sono davvero allarmanti: lei sostiene che sei italiani su dieci non credono più al Trattato di Schengen, anche all’interno dalla forza politica di maggioranza, il Pd. Conferma?
«Tenga conto che questa indagine rileva le percezioni, quindi gli orientamenti delle persone. In realtà misura il clima d’opinione. Abbiamo scandagliato la base potenziale e i simpatizzanti di diversi partiti e i risultati sono questi: nel Pd quattro persone su dieci sono contrarie a Schengen, rispetto ai 7 su 10 di Forza Italia, 8 per la Lega Nord, ma anche il 55% di elettorato vicino al Movimento Cinque Stelle sostiene la posizione più radicale, ossia che vengano immediatamente rispristinati i controlli alle frontiere. Questo è un dato che riflette il sentimento delle popolazione. In Germania il 19% e da noi, in Italia, il 56% del totale della popolazione sostiene la sostanziale chiusura – il controllo – alle frontiere, dunque il ripristino di un Europa precedente al Trattato di Schengen. In Spagna il 25%. Il 40% in Francia. I favorevoli a mantenere Schengen così com’è, in Italia, sono il 13%, più o meno come in Francia dove la situazione è decisamente più difficile e sicuramente la richiesta di controlli più motivabile. Ammesso che sia possibile poter controllare un mondo così globalizzato come il nostro».
Eppure la politica italiana, in tema di migrazioni e accoglienza, sembra andare in senso contrario alle chiusure europee. Il presidente delle Repubblica e solo ieri anche il papa, hanno ricordato favorevolmente il progetto pilota dei corridoi umanitari che la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), la Comunità di Sant’Egidio e la Tavola valdese stanno attuando insieme ai ministeri dell’Interno e degli Esteri. La politica, le chiese e il mondo associazionistico non rappresentano dunque la società civile?
«Rispetto ad altri paesi noi oggi siamo, e siamo sempre stati, molto esposti. Magari non quanto la Grecia e i Balcani in questa particolare fase, ma siamo un paese di frontiera, un ponte sull’Africa, sul Nord Africa, un luogo attraversato da persone in fuga e deportate da trafficanti di esseri umani – una componente quest’ultima non irrilevante dei flussi che regolarmente arrivano nel nostro paese, ma che sono in realtà il prodotto del lavoro sporco dei mercanti di persone. Nonostante tutto e malgrado l’accoglienza che le nostre Istituzioni cercano di garantire – c’è la paura. Non dobbiamo stupirci che il mondo faccia paura. Nel momento in cui ci si sente esposti all’esterno con “l’altro” che incombe nel nostro spazio, nella nostra territorialità, le paure aumentano. Noi viviamo costantemente l’approdo di persone sulle nostre coste: questo fatto crea enfasi, paure ma anche pietà, dopo un primo periodo di ostilità e opposizione iniziale. Nei confronti di rifugiati e migranti prevale in generale un atteggiamento di accoglienza perché la società italiana ha una “densità solidale e associativa” molto presente, se questa “densità solidale” la si ritiene minacciata prende il sopravvento l’inquietudine. Inquietudine che tuttavia non è sinonimo di ostilità».
Secondo lei, Diamanti, il progetto dei corridoi umanitari potrebbe essere sviluppato su larga scala e in tutta Europa?
«Come tutti gli esperimenti, andrebbe verificato nel tempo. Credo che sia stato avviato e attivato anche per poter testare su un piano diverso da quelli attuali un modello diverso di accoglienza per un fenomeno che dev’essere in qualche modo normalizzato e che vede da una parte la dimensione emergenziale e dall’altra quella necessaria dell’accoglienza. Quando un fenomeno è riconoscibile e controllabile, in generale, si registra meno inquietudine. Sono sempre ottimista, anche per questa lodevole iniziativa, fatta salva la verifica dei fatti e dei dati nel tempo».
A proposito di inquietudini e paure, generati spesso proprio dai media. Lei ha presentato poco tempo fa il rapporto della Carta di Roma su media e “Notizie di Confine” cosa è emerso?
«I motivi di tanto allarme sono costituiti, da una parte, dal fenomeno migratorio cresciuto fortemente in questi ultimi anni e, dall’altra, anche dalla visibilità che il fenomeno ha ottenuto grazie alla diffusione dei media. Una visibilità in parte fondata su dati oggettivi e dall’altra scaturita da dalla retorica dei luoghi comuni e degli stereotipi, come quello “dell’invasione”, ad esempio. Una retorica che ha fornito elementi per una spettacolarizzazione televisiva e per alcuni partiti una sponda sulla quale appoggiarsi, politicamente. Ovviamente questo avveniva molto di più nel passato che oggi. Dal punto di vista mediale esiste oggi un controllo diverso dell’informazione data rispetto al passato, c’è più attenzione, cura, più controllo al flusso di notizie su questo tema, un’alfabetizzazione che nel tempo si è cementata anche grazie alle Carte deontologiche e alle Associazioni come la Carta di Roma che cercano di attuarne le linee guida. Una cosa che invece i media spesso non sottolineano abbastanza è l’altra faccia delle nostre paure. Ossia la nostra fragilità demografica. Noi siamo un paese in declino con un saldo demografico negativo, dove i profughi e gli immigrati sostano con la speranza di potersene andare altrove il più velocemente possibile. Il paese di destinazione privilegiato è la Gran Bretagna. L’immigrazione può anche generare inquietudine ma è un buon indicatore dello sviluppo di un paese. Quando chi arriva non ha nessuna intenzione di fermarsi e chi già da tempo, residente, dimostra l’interesse di andarsene, vuol dire che le cose in casa propria non stanno affatto andando bene».