di Vincenzo Vita
Qualcosa di nuovo dietro il sipario? Parrebbe di sì, dalla Gazzetta ufficiale, che pubblica il decreto di modifica del contestatissimo provvedimento del luglio 2014 sulle modalità di attribuzione delle risorse. Ci torniamo più avanti. Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini, regista l’uno e critico l’altro, hanno scritto recentemente un efficace e amaro “discorso sulla perdita di senso del teatro”, dal titolo “La fortezza vuota”. Il filo conduttore delle belle pagine è chiaro e condivisibile: il teatro ha un ruolo pubblico importante e per questo merita i finanziamenti delle amministrazioni, centrale e locali. Non solo. Si sottolinea giustamente che gli spettacoli coraggiosi, artisticamente rischiosi e culturalmente stimolanti non potrebbero mai calcare la scena senza un significativo intervento dello stato “allargato”. Del resto, tutto ciò fu messo in teoria e in pratica nella stagione sinteticamente riferita all’esperienza di Giorgio Strehler e di Paolo Grassi, quando parlare di teatro pubblico era ovvio e non blasfemo. Al “Piccolo teatro” di Milano e in molte parti del territorio italiano. Al contrario, nella stagione dominata dalle culture liberiste e dalla televisione commerciale, dal “berlusconismo” pervasivo e totalizzante, il teatro è figlio di un dio (molto) minore.
Relegata all’annuale lotta fratricida per qualche briciola del modestissimo Fondo unico dello spettacolo, via via la nobilissima arte è uscita dai radar di buona parte del sistema politico, pago di andare in video o di presenziare a qualche “prima” glamour. Così è se vi pare, tanto per citare uno dei maestri. Purtroppo, le cose continuano a non andare. Ci si riferisce all’accennato decreto del 2014, che ha parzialmente “commercializzato” il teatro pubblico, introducendo criteri di finanziamento prevalentemente quantitativi, volti peraltro a risarcire dal passivo di bilancio dichiarato. Un’apparente aporia, che assomiglia al meccanismo discutibile immaginato per le fondazioni lirico-sinfoniche. Secondo le strategie governative esplicite-implicite –in verità piuttosto simili pure all’articolato del Mibact sul cinema – si premia la consistenza aziendale prima ancora della creatività. Pur con qualche attenzione alle esperienze giovanili, disseminate –però- nel calderone di un finanziamento pubblico così esiguo.
Tuttavia, anche a seguito dei circa cento ricorsi contro il decreto n.71, di un malcontento amaro di cui ha scritto Gianfranco Capitta su il manifesto dello scorso 5 marzo e del quale aveva parlato la recente tavola rotonda del premio intitolato a Renato Nicolini, ecco un nuovo decreto. Non è una rivoluzione, ma talune questioni paiono meglio considerate. Ad esempio, l’ampliamento dell’opportunità di ricorrere alle coproduzioni e l’estensione dei soggetti che vi possono partecipare. Insomma, spazio –sembrerebbe- per le residenze e le compagnie meno grandi. Quindi, la coperta si allarga, oltre i teatri nazionali e quelli di “rilevante interesse culturale”. Ma che fatica. A quando una vera riforma di sistema? Non è credibile procedere, al di là delle correzioni e dello stesso ricambio avvenuto al vertice del ministero, con iniziative prive di un ancoraggio a linee e visioni compiute, discusse innanzitutto con i protagonisti. Questi ultimi vivono giorni drammatici, a causa dei tagli antichi e della riduzione della spesa locale, nel quadro dell’impoverimento generale. Nel frattempo, un’attrice –Monica Samassa- e un attore –Pino Misiti- si sono tolti la vita. La realtà incombe e chiede soluzioni durature.