di Barbara Scaramucci
Andrea Melodia è stato oltre 40 anni alla Rai, dove ha ricoperto numerosi importanti incarichi giornalistici ed è stato direttore della struttura che poi è diventata Rai Fiction e vice direttore vicario di Rai Uno. Ha diretto anche Telemontecarlo ed è stato per due mandati – il massimo previsto dal regolamento associativo – presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, che nel congresso dei giorni scorsi ha eletto al suo posto Vania de Luca. Il 15 marzo Melodia, con l’Associazione Dirigenti Pensionati Rai, organizza nella sede centrale della Rai un convegno sulla riforma del servizio pubblico alla vigilia del rinnovo della convenzione con lo stato.
Repressione della libertà di stampa in molti paesi, terrorismo, migranti, guerre, e crisi di una professione immersa nel difficile passaggio non solo tecnologico del nostro tempo: in questa situazione, forse mai così difficile, come dovrebbe cambiare la nostra professione? Cosa è emerso dal congresso nazionale dell’UCSI?
Sì, sono tanti problemi insieme. Noi discutiamo, giustamente, sulle condizioni interne per garantire il pluralismo e la democrazia in un paese, o in un continente, che deve ricostruire la coesione sociale e frenare il populismo, e dunque cerchiamo di capire dove finiscano le libertà e dove comincino le varie forme di arbitrio che alimentano la violenza e il terrorismo; ma in Paesi vicini all’Europa, come la Turchia, intanto si chiudono i giornali d’opposizione e si mandano in galera i giornalisti. Noi – certo non associazioni come Articolo21 – rischiamo di accapigliarci per spostare di pochi centimetri l’asticella tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, magari dimenticando di portare solidarietà ai colleghi che rischiano la vita, o l’onorabilità, sotto gli attacchi della criminalità organizzata e delle querele temerarie. La professione cambia perché il sistema della comunicazione è sempre più complesso, invasivo, integrato. Le tecnologie non hanno solo introdotto media nuovi, hanno profondamente trasformato i vecchi. Dobbiamo affrontare cambiamenti epocali in termini di competenze e padronanza dei linguaggi. Però i fondamentali restano invariati, servono responsabilità, spirito di servizio al pubblico, consapevolezza che il nostro non è un mestiere per cinici. Come UCSI, in sette anni di presidenza ho cercato di costruire una coscienza della complessità, sulla quale costruire in concreto la costruzione dell’etica professionale. Che non è una cosa astratta, ma un modo concreto di riflettere, di discutere con i colleghi il modo di fare la nostra professione il meglio possibile nelle diverse situazioni. Credo anche che ci sia stato quest’anno un vero regalo da parte di papa Francesco, un regalo anche per tutti i giornalisti, quando ha spiegato che la misericordia, “benedizione di chi la dà e di chi la riceve”, deve diventare il segno distintivo di tutte le forme di comunicazione. E alla fine l’UCSI ha eletto presidente una donna, Vania De Luca, e questo arricchirà ancora il nostro percorso.
Purtroppo oggi è sotto gli occhi di tutti che i giornalisti sono meno credibili per l’opinione pubblica e che il moltiplicarsi di informazioni in forma di spot, soprattutto sul web, confonde e non genera proporzionalmente cultura e conoscenza. Si può invertire la rotta e come?
Che la credibilità del giornalismo sia in crisi non è certo una novità, molte ricerche lo confermano, per cause note come l’immagine di scarsa autonomia e di vicinanza ai centri di potere. Aumenta o diminuisce la credibilità, nel passaggio dalla comunicazione di massa alla rete? Certo, le informazioni aumentano enormemente di numero, molte sono fatte con il “copia e incolla” e sono spesso incontrollate, a volte decisamente ideologiche, manipolatorie. Occorre imparare a identificare l’attendibilità dell’origine di ogni notizia. Però credo che ci sia un paradosso, perché non si può dimostrare che le condizioni di dilettantismo o di precarietà professionale, che oggi sono alla base di un gran numero delle informazioni, si accompagnino a un ulteriore calo di credibilità. C’è, anzi, chi sostiene il contrario, quasi che la credibilità in qualche modo sia legata alla leggerezza, alla non sistematicità, al volontarismo dell’azione informativa. Cioè alla presenza di una motivazione etica, e non al semplice rispetto di norme deontologiche. Che sia dunque l’etica la condizione di partenza del buon giornalismo? Come si vede, siamo di fronte a questioni complesse. Dobbiamo cercare di risalire alle intenzioni, e non sempre è possibile.
Quarant’anni fa la riforma della Rai – che assegnava il potere sull’azienda al Parlamento e non al Governo (oggi la situazione è ribaltata) – determinò per la prima volta l’esistenza di due diverse testate giornalistiche televisive, il TG1 e il TG2. Oggi si discute molto sulla necessità di un’unica newsroom per tutte le testate della Rai. Cosa significò la riforma allora e come si potrebbe riformare l’informazione della Rai oggi?
Allora si era di fronte a una esigenza di libertà e di pluralismo, in una stagione fortemente segnata dalle ideologie, ma già c’era chi – ricordo un scritto di Emilio Rossi precedente alla legge di riforma – metteva le mani avanti sul pericolo che la lottizzazione degenerasse: diceva che, spartendo le aiuole, si autorizzava ciascun ad essere di parte e alla lunga a non rispettare le opinioni degli altri. I primi anni dopo la riforma furono quasi esemplari, per la qualità delle persone scelte ai vertici delle Testate e delle Reti; più tardi il processo degenerativo ebbe il sopravvento, anche per come andarono le cose nel sistema televisivo italiano in generale. Oggi la situazione è profondamente cambiata. Il pluralismo resta un valore alto ma lo è anche la coesione sociale, occorre trovare un equilibrio. Ma soprattutto sono cambiate le tecnologie e le condizioni del mercato. Internet è al centro della gestione dell’informazione, la crossmedialità è una necessità consolidata. Credo che sia proprio l’ingegneria dell’informazione a suggerire per la Rai una newsroom centralizzata, un concentrato multimediale di energia produttiva, affiancata da strutture di editing e di personalizzazione delle offerte specializzate sui diversi canali – internet, tv, radio – costruite per i diversi pubblici, e non certo per le diverse ideologie, ammesso che la parola abbia ancora senso.
Poi si dovrà tornare sulla questione della governance aziendale: ciò che oggi può consentire di rivoltare l’azienda difendendosi dalle pressioni esterne, domani potrebbe diventare strumento di limitazione delle libertà. Come descriveresti tu in questa fase il ruolo di un autentico servizio pubblico dell’informazione?
Come qualcosa orientato a far crescere la qualità dell’informazione nel suo insieme, attento a evidenziare il meglio ovunque si trovi piuttosto che a promuovere se stesso, qualcosa di impegnato a costruire l’immagine sociale, che non è una astrazione ma è fatta concretamente, nel suo lato buono, di cultura, di coesione, di creatività, di rapporto costruttivo con l’ambiente, di capacità di reagire alle difficoltà e di collaborare per la pace e lo sviluppo sostenibile. Non certo per nascondere il male, che anzi va denunciato con coraggio. Ma il cane da guardia non si limita ad azzannare i ladri, vuole anche bene alla famiglia dei suoi padroni. Mi viene in mente Walter Lippmann, citato da Mario Calabresi nel suo primo editoriale su Repubblica: il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà. Vorrei tanto che i miei colleghi della Rai si ricordassero sempre delle loro responsabilità, forse dedicherebbero più cura a comunicare le emozioni di chi si impegna per migliorare la società, e meno a raccontarci i particolari efferati dell’ultimo delitto.
Ci sono parole che nella nostra categoria sono diventate sbiadite: valori, etica, moralità, qualità, responsabilità, perfino trasparenza…come possiamo coinvolgere le nuove generazioni perché esse divengano per loro pratica del lavoro quotidiano?
Credo che ci sia un solo modo: farli partecipare a processi formativi di qualità, nei quali si spieghi che la sopravvivenza di questo lavoro dipende dalla credibilità di chi lo pratica, e che la credibilità deriva dalla responsabilità e in ultima analisi dall’etica. Un’etica laica, professionale, non moralistica, concreta. La deontologia è una forma necessaria ma non sufficiente. Senza etica professionale non servono i giornalisti, perché ormai le notizie viaggiano con le proprie gambe. Il giornalista non è più chi dà le notizie ma chi dà loro senso, chi aggiunge livelli adeguati di competenza che permettano di gerarchizzare, contestualizzare, correlare, selezionare le notizie, o magari estrarle da una massa di dati: il tutto molto velocemente, grandi quantità e pochi errori, rispetto sostanziale della verità, attenzione costante a cogliere quello che è utile per la propria comunità di riferimento. Dobbiamo spiegare ai giovani professionisti che solo se saranno credibili potranno continuare a campare di questo mestiere. E in questo modo aiuteranno la società a temere i poteri forti e oscuri, a pretendere trasparenza e a combattere la corruzione.