di Stefania Battistini
In Turchia si silenziano anche così i giornalisti considerati d’opposizione. Non solo con licenziamenti e arresti, ma anche con lacrimogeni e cannoni ad acqua. Le immagini arrivate ieri da Istanbul sono l’ennesima ferita alla democrazia: dentro la redazione, la polizia che irrompe della sede di Zaman, il quotidiano più diffuso del paese, usando gas al peperoncino; fuori, gli agenti con gli idranti , disperdono le centinaia di persone accorse per protestare contro l’ennesima violazione della libertà di stampa. Perché – dopo decine di arresti, centinaia di licenziamenti, televisioni e siti web oscurati – due giorni fa è arrivata anche la decisione del Tribunale di commissariare il gruppo Zaman Media (che controlla il giornale turco Zaman, l’edizione inglese Today’s Zaman, l’agenzia di stampa Cihan, il settimanale Aksiyon e la tv Samanyolu) afferente alla galassia mediatica di Fethullah Gulen, l’imam che fu alleato di Erdogan, poi diventato il suo peggior nemico dopo la Tangentopoli turca nel 2013 secondo Erdoğan orchestrata proprio da Gulen per rovesciarlo. E così, l’imam si è autoesiliato negli Usa e Zaman è diventato una delle maggiori voci di opposizione in Turchia.
Da questa situazione arriva il commissariamento, l’accusa di “propaganda terroristica” a favore, appunto, di questo presunto “stato parallelo” creato dall’ex alleato per sovvertire il presidente. Due settimane fa l’ex direttore Ekrem Dumanli è finito in carcere. E ieri i colleghi giornalisti – quello che dovrebbe essere “il quarto potere” a controllo delle altre istituzioni – sono stati costretti a entrare in una redazione presidiata dalle forze di polizia. Abdullah Bozkurt, uno dei più noti editorialisti, ha twittato: “Ecco come noi giornalisti dobbiamo fare il nostro lavoro: sotto il controllo delle forze speciali e con la polizia dentro gli uffici”. Eppure, nonostante l’assalto degli agenti, la redazione è riuscita a pubblicare sul suo sito le immagini dell’irruzione, provocando finalmente una reazione da parte dell’Europa alla vigilia di un incontro chiave a Bruxelles tra il governo turco e l’UE sulla questione dei rifugiati, con la Turchia forte della situazione di emergenza che vive l’Europa, pronta a dare a Erdoğan tre miliardi per bloccare i profughi. Questa volta l’UE sembra, almeno a parole, aver preso una posizione netta. Il presidente del Parlamento, Martin Schulz, ha annunciato che lunedì chiederà spiegazioni al premier Davutoglu: “Il sequestro di Zaman è un altro colpo alla libertà di stampa in Turchia. Se qualcuno non è d’accordo con le notizie di un giornale dovrebbe opporsi con i fatti, non imbavagliando il giornalismo”.
Le preoccupazioni – prima di firmare un patto difficile da sciogliere sui rifugiati – riguardano proprio i l possibile ingresso della Turchia nell’Ue. Il commissario all’allargamento, Johannes Hahn, si dice “estremamente preoccupato per quanto accaduto a Zaman”, mentre dagli Usa il Dipartimento di Stato bolla come “inquietanti” le azioni giudizi arie per mettere a tacere i media: “la Turchia è candidata all’adesione e deve rispettare la libertà di stampa. I diritti fondamentali non sono negoziabili”, ha detto il portavoce Kirby. L’accusa di “propaganda terroristica” si ripete continuamente, come se nel Paese che fu di Atatürk funzionasse il sillogismo per cui chi ha opinioni diverse dal partito al potere (e l’Akp di Erdoğan controlla presidenza della Repubblica e maggioranza parlamentare) è per forza un terrorista, un attentatore alla sicurezza nazionale. Con la magistratura – formalmente un potere indipendente – invece fortemente influenzata dalle volontà del Capo dello Stato, come quando, dopo la pubblicazione dell’inchiesta sul traffico d’armi verso la Siria firmato da Dündar e Gul su Cumhuriyet, Erdoğan tuonò contro i giornalisti: “La pagherete”, disse, e ne ordinò l’arresto per rivelazione del segreto di Stato e attentato alla sicurezza nazionale. Lui in persona firmò la richiesta e la magistratura eseguì. Fino alla decisione della Corte Costituzionale di scarcerare i due reporter perché ha giudicato una “violazione dei diritti” la loro detenzione in attesa di giudizio. In particolare la Corte ha stabilito che sono stati violati i “diritti individuali, la libertà di espressione e di stampa” dei giornalisti, citando gli articoli 19, 26 e 28 della Carta. Insomma, esiste ancora un giudice a Berlino, retaggio dell’impostazione laica dello Stato realizzata da Mustafa Kemal Atatürk a inizio del secolo scorso. Ma l’incubo non è finito, perché i due giornalisti sono stati sì scarcerati, ma rischiano comunque l’ergastolo solo aver avuto il coraggio di scrivere su territorio turco quello che raccontano molti giornali internazionali: gli ambigui rapporti tra l’Isis e il paese e la drammatica situazione curda, la cui popolazione civile viene costantemente sotto i bombardamenti, attaccata dall’esercito.
di Riccardo Noury
Il governo del presidente Erdogan sta asfaltando la libertà d’infomazione.
Non c’è altro modo di definire quanto sta accadendo in Turchia, dove una settimana fa è stata chiusa l’emittente televisiva IMCTV – l’unico canale nazionale che riportava un punto di vista non ufficiale sulle operazioni militari e i coprifuoco nel sud-est del paese – e dove il 4 marzo un tribunale di Istanbul ha posto sotto amministrazione controllata il quotidiano indipendente Zaman. …Leggi tutto »
di Gian Mario Gillio, direttore responsabile Agenzia stampa Nev
«Anche noi eravamo sicuri di dover attraversare il mare due anni fa», così racconta “Fadi”, un padre di famiglia atterrato ieri all’aeroporto di Fiumicino insieme ad altri 92 siriani di Homs. Tutte persone in fuga dalla guerra e in attesa di poter partire alla volta dell’Europa da un campo profughi libanese che sino all’altro ieri li ospitava.
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di Giuseppe Giulietti
” Diamo il premio Nobel per la pace alle comunità di Lampedusa e di Lesbo..” , queste le parole che il regista Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro al festival di Berlino, ha voluto dedicare a due comunità che sono diventate il simbolo della solidarietà, della inclusione, della accoglienza verso chi fugge da fame, guerra e terrore.
Il suo film ” Fuocoammare” è un’opera tragica, disperata, ma illuminata non solo dal fuoco della violenza e dell’odio, ma anche dalla luce della passione civile e della dignità umana.
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La crisi in Sud Sudan a Speciale Tg1. Domenica 28 febbraio su Rai1 alle 23.35 andrà in onda “Profondo sud” di Enzo Nucci, il corrispondente Rai da Nairobi. Quarantamila persone stanno morendo di fame mentre un quarto della popolazione ha urgente bisogno di aiuti alimentari. Eppure il Sud Sudan è ricco di acqua e terreni coltivabili nonché di petrolio. Ma la nazione più giovane del mondo da tre anni è squassata da una guerra civile che ha già causato decine di migliaia di vittime e milioni di profughi.
“Profondo sud” è un viaggio nel paese nato nel 2011 dopo quasi 50 anni di sanguinosa guerra con il Sudan islamico. Le speranze che accompagnarono la nascita di questa nazione si sono infrante per lo scontro tra i due principali leader in lotta per il controllo delle ricchezze che non esitano ad arruolare nelle proprie file anche i bambini soldato. Un conflitto che sta assumendo sempre più connotati etnici e razziali, proprio come è già successo nel 1994 in Rwanda. Secondo le Nazioni Unite la crisi umanitaria in Sud Sudan è paragonabile a quella che stanno vivendo le popolazioni di Siria e Repubblica Centrafricana. La Chiesa cattolica sta tentando di riportare la pace, ma i dieci accordi di “cessate il fuoco” fino ad oggi sottoscritti sono stati puntualmente violati.
di Antonella Napoli, Italians for Darfur
“Il governo del Sudan ha avviato in Sudan la ‘soluzione finale’ nel silenzio colpevole della comunità internazionale”. Questa la testimonianza di una Niemat Ahmadi, fuggita dal Sudan dopo aver ricevuto due volte minacce di morte, e rifugiata negli Stati Uniti dove ha fondato un’organizzazione internazionale per i diritti umani, Darfur women action in Commissione Diritti Umani e in conferenza stampa al Senato della Repubblica in occasione della presentaziione del Rapporto 2016 sulle crisi in Sudan di Italians For Darfur. …Leggi tutto »
Ci saranno Amnesty International Italia, l’Associazione Antigone, Cild, la Federazione nazionale della stampa italiana, Articolo21, l’Usigrai, la Tavola della Pace e altre associazioni della rete Illuminare le periferie. Insieme chiederanno “Verità per Giulio Regeni” dando seguito alla mobilitazione partita dopo la misteriosa morte del giovane ricercatore e proseguendo nell’impegno assunto fin dai primi giorni della complicata vicenda.
di Elisa Marincola
“Il mio pensiero va a coloro che non ce l’hanno fatta”. Gianfranco Rosi, regista di Fuocoammare, ha salutato così la consegna dell’Orso d’Oro, il massimo premio della Berlinale, la rassegna cinematografica berlinese che ha dedicato questa 66esima edizione proprio al dramma dei profughi, che il documentarista ha raccontato, seguendo per più di un anno le vicende dei superstiti sbarcati sull’isola, la loro disperazione, le difficoltà degli isolani e l’accoglienza che, nonostante tutto, offrivano a quelle famiglie sopravvissute a guerre, violenze e, infine, al mare. Rosi ha voluto con sé sul palco Pietro Bartolo, il medico lampedusano che offre le prime cure a quanti sbarcano. Durante le lunghe riprese e il montaggio, tutto realizzato a Lampedusa, lo ha inserito tra le voci narranti del film. E Bartolo spiega così le radici di quella generosità: “Noi siamo un popolo di pescatori e i pescatori accettano tutto quello che viene dal mare”.
“Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi. Un film urgente, visionario, necessario“: è il giudizio letto dalla presidente della giuria, Meryl Streep. Ma Fuocoammare è stato davvero il vincitore dell’intera rassegna, raccogliendo anche i premi di tre delle giurie indipendenti, tra cui il riconoscimento della sezione tedesca di Amnesty, ma anche il favore dei lettori del quotidiano Berliner Morgenpost. Un segno che non solo la critica, gli addetti ai lavori o le organizzazioni umanitarie, ma anche gli spettatori tedeschi hanno compreso il valore di un’opera che racconta una realtà dura, l’incontro tra fuggitivi e popolazioni locali, un incontro faticoso e drammatico che sta mettendo a dura prova la tenuta dell’intera Europa come si è formata da settant’anni a questa parte.
A essere premiate sono anche l’isola, porta d’Europa nel pieno del Mediterraneo, e la sua sindaca Giusi Nicolini, che continua a battersi per salvare vite e, insieme, mantenere unita e solidale una comunità in difficoltà.
L’Orso d’oro consacra a sua volta anche un genere, il documentario, che proprio Rosi ha saputo portare al grande pubblico, prima con “El Sicario”, sul narcotraffico in Messico, e poi con “Sacro Gra”, vincitore a Venezia nel 2013. Un genere che racconta la realtà attraverso i suoi protagonisti autentici, lasciando il segno sullo stesso regista, che prima di lasciare il palco ha lanciato un richiamo alla platea: “Per la prima volta l’Europa sta discutendo seriamente alcune regole da fissare, io non sono contento di ciò che stanno decidendo. Le barriere non hanno mai funzionato, specialmente quelle mentali. Spero che questo film aiuti ad abbattere queste barriere“.
di Giuseppe Giulietti
Giulio Regeni era una spia? Da qualche giorno l’ipotesi circola nelle redazioni, finisce negli articoli, viene ripresa da radio e tv, alimenta il dibattito, risuona nelle case degli italiani. Le smentite, immediate e puntuali, arrivano con lentezza, quasi non fossero gradite. Giulio Regeni, durante il suo soggiorno londinese, aveva collaborato e scritto qualche pezzo anche per un’agenzia fondata da un’ex dirigente della Casa Bianca, coinvolto nello scandalo Watergate; agenzia alla quale collaboravano con studi, ricerche ed inchieste, diversi docenti dell’Università di Oxford.