di Antonella Napoli, Italians for Darfur
“Il governo del Sudan ha avviato in Sudan la ‘soluzione finale’ nel silenzio colpevole della comunità internazionale”. Questa la testimonianza di una Niemat Ahmadi, fuggita dal Sudan dopo aver ricevuto due volte minacce di morte, e rifugiata negli Stati Uniti dove ha fondato un’organizzazione internazionale per i diritti umani, Darfur women action in Commissione Diritti Umani e in conferenza stampa al Senato della Repubblica in occasione della presentaziione del Rapporto 2016 sulle crisi in Sudan di Italians For Darfur. …Leggi tutto »
di Vincenzo Vita
Si sono celebrate a Milano le esequie di Umberto Eco e, con la partecipata cerimonia laica, è calato il sipario sull’incredibile storia di un fuoriclasse del lavoro intellettuale, noto nel mondo all’incirca come i Beatles. Rileggere, tra l’altro, il suo “Apocalittici e integrati” (1964) fa bene alla salute mentale e fornisce a coloro che si occupano di comunicazioni di massa categorie analitiche e strumenti cognitivi pressoché perfetti: senza tempo. Una sorta di breviario, che ci accompagna lungo i sentieri dell’Alto, del Medio e del Basso, senza gerarchie prestabilite ma con l’attenzione rabdomantica verso le strategie del desiderio. Per capire ciò che accade sotto la superficie dei segni, e dunque quei rivolgimenti che le élites stentano a comprendere.
Uno dei luoghi dell’azione poliedrica di Eco fu la Rai. Fu un momento particolare per la vita di un’azienda che aveva da essere “di servizio”, non puramente ancorata al mercato. Talmente particolare che i giovani si chiamavano Angelo Guglielmi, Emanuele Milano, Gianfranco Bettetini, Raffaele Crovi, Riccardo Venturini, Piero Angela, Mario Carpitella, Francesca Sanvitale, Fabiano Fabiani, Enrico Vaime, Luigi Di Gianni nel “concorsone” del ’55; Furio Colombo, Gianni Vattimo, Umberto Eco nella selezione dell’anno precedente. Poco dopo fu la volta di Andrea Camilleri. Una Rai pur dominata dall’esprit democristiano e segnata dal clericalismo censorio ebbe il coraggio di aprire i cancelli alle culture contemporanee. Simile esigenza prevaleva sui lacci politici e ideologici. Perché si immaginava per la Rai un futuro da grande fucina, da prima industria dell’immaginario. Il protagonista di tale iniziativa progressista voluta dai conservatori (spesso accade il contrario, come sappiamo) fu il capo-azienda Filiberto Guala, devotissimo tanto all’Onnipotente quanto al bene del servizio pubblico.
A quei nomi corrisposero numerosi dei programmi di successo, dalle rubriche culturali, al varietà, ai famosi sceneggiati. Fino ai quiz, in grado di suscitare un movimento di pubblico come difficilmente è successo in seguito. Fu la fenomenologia di Mike Bongiorno a imporsi, grazie ad Eco che, oltre a scrivere gran parte delle domande dei quiz, riuscì a ricavarne un saggio travolgente, valido per tutti i Mike di ogni epoca. Insomma, un’altra Rai, rispetto a ciò che oggi abbiamo in eredità. Sarebbe opportuno riflettere seriamente sui vari perché del declino, tuttavia il tonfo risulta evidente. Senza ingiuste generalizzazioni, è doveroso prendere atto della realtà. E vogliamo raffrontare –senza offesa per le persone- le nomine dell’epoca con quelle attuali, a partire dalle recenti scelte per la direzione delle reti? E’ la cultura deteriorata, o sono i sensori dei vertici ad essersi offuscati? Ci sono tante più cose tra viale Mazzini e il mondo di quanto la leadership supponga, per parafrasare. Il partito nella nazione ha imposto valium e camomilla. La prova provata della crisi profonda è l’assenza di progettualità, che ridisegni la Carta fondamentale del servizio pubblico nell’era della rete. La Rai di Eco pensava all’alfabetizzazione degli italiani e a conti fatti riuscì nell’intento, pur ammantata di ideologia. La Rai di domani, in fondo, ha un compito simile, declinato con e nell’ambiente digitale. Ciò richiede, forse, anche un nuovo “concorsone”, che porti ad un ricambio coraggioso e non calato dall’alto in modo arbitrario.
Qualche anno dopo Guala prese i voti ed entrò in convento. Chissà se l’odierno amministratore delegato vorrà seguirne l’esempio.
di Gian Mario Gillio
«Le ragioni di questo rinnovato attacco alla libertà di stampa risiedono anche nella necessità, per i regimi e per la criminalità, di garantirsi anonimato ed oscurità». La nostra intervista a Giuseppe (Beppe) Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi).
di Tavola della pace
Il nostro Paese corre un grosso rischio in un eventuale intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. E’ quanto emerge da un documento presentato nei giorni scorsi a Udine all’interno del seminario nazionale “Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, …Leggi tutto »
di Shukri Said
Sulle problematiche che si stanno manifestando in vista delle elezioni della prossima estate in Somalia abbiamo intervistato Abdiweli Mohamed Ali, detto Gaas, già docente di economia negli Stati Uniti. E’ stato Primo Ministro dell’ultimo Governo Federale di Transizione in Somalia ed attualmente è Presidente della Regione semiautonoma del Puntland
D. L’attuale leadership della Repubblica federale di Somalia guidata da Hassan Sheikh Mohamud ha riproposto per le elezioni dell’estate 2016 il vecchio sistema elettorale denominato “4.5 (four point five)” che suddivide le cariche del potere assegnandone una per ciascuno dei quattro clan ritenuti principali (pur non avendo tra di loro lo stesso peso) e metà ai clan minoritari unitariamente considerati. E’ un sistema che lei conosce bene avendo contribuito a mantenerlo per l’elezione del governo attualmente in carica che ha definitivamente sostituito il periodo della transizione di cui Lei è stato l’ultimo Primo Ministro. È vero che lei, però, non è d’accordo a mantenere il sistema “4.5” anche per la prossima tornata elettorale?
R. È verissimo. Siamo nettamente contrari a mantenere questo sistema elettorale anche per le prossime elezioni dell’estate 2016. Prima era necessario uscire dalla transizione in modo unitario ed è per questo che il sistema “4.5”, proposto dalla comunità internazionale, è stato accettato, ma doveva essere temporaneo e doveva essere superato, in base alla road map, durante questi quattro anni di governo federale non più transitorio sostituendolo con il suffragio universale. Invece questi quattro anni sono trascorsi invano, nessuna delle riforme attese è stata varata e il superamento del sistema clanico non è avvenuto. Ricordo che il Governo attuale era stato voluto per conseguire la revisione della Costituzione provvisoria, la riconciliazione, la formazione della Corte Costituzionale, la formazione della Camera Alta cioè il Senato delle Regioni, il completamento delle amministrazioni centrali e regionali, la registrazione dei partiti politici, la formazione dell’esercito unitario somalo, la definitiva eliminazione di Al Shabab e la messa in sicurezza di tutto il Paese, il censimento della popolazione, il recupero dei beni pubblici e privati ai rispettivi legittimi proprietari, l’adozione di sistemi nazionali giudiziario, tributario, sanitario e dell’istruzione degni di uno Stato, l’inizio della ricostruzione dei beni pubblici quali strade, fognature, illuminazione, sedi di uffici. Neppure uno di questi scopi è stato raggiunto e, anzi, vi sono più focolai di scontri clanici oggi rispetto a quattro anni fa. La corruzione dilaga, la sicurezza è sfuggita di mano e a Mogadiscio ci sono uccisioni ogni giorno nonostante la presenza dei militari di AMISOM.
D. Che cosa ha di negativo il sistema “4.5” e perché secondo lei ha impedito il raggiungimento degli obbiettivi che aveva indicato la road map?
R. È un sistema che si è rivelato ingiusto e nettamente sfavorevole al popolo somalo. E’ basato sui principi clanici e non su quelli costituzionali. Aumenta la litigiosità e la concorrenza tra clan. Indebolisce e delegittima le istituzioni anziché rafforzarle. Ostacola la democrazia. Un parlamentare scelto da un saggio clanico a chi risponde? I parlamentari dovrebbero rispondere ai loro elettori. Ma quando il parlamentare viene nominato da un individuo, risponde a questo che gli ha fatto la grazia di sceglierlo tra migliaia di persone. Quindi non rende un servizio al popolo al quale non è legato da nessun vincolo.
D. In sostituzione del sistema clanico, quale sistema elettorale proponete?
R. Se non si può procedere subito con le elezioni a suffragio universale, almeno di applichi un sistema su base regionale, provinciale e distrettuale in modo che ogni parlamentare possa essere eletto nel modo più democratico possibile. Proponiamo la suddivisione del territorio somalo nelle stesse diciotto regioni in cui risultava diviso sino al 1991, anno dell’ultimo governo di Mohamed Siad Barre riconosciuto come governo unitario dalla comunità internazionale.
D. Ormai il tempo per cambiare le regole del gioco rispetto alle elezioni della prossima estate appare esiguo. Avete una proposta?
R. Noi non accettiamo che si prolunghi l’ingiusto sistema “4.5” senza che venga fissata la data in cui verrà abbandonato. La comunità internazionale, l’ONU, l’UE, l’UA, AMISOM, l’IGAD, la Lega Araba … tutti, devono stabilire la fine del “4.5” indicando una data certa per il suo abbandono.
D. Accettereste che il sistema “4.5” venisse abbandonato fra quattro anni, nel 2020?
R. Basta che venga precisato che a decorrere da una data certa quel sistema sarà abbandonato.
di Anna Cerofolini
Che io abbia scritto o no, non fa differenza. Cercherebbero sempre un altro senso, anche nel mio silenzio. Sono fatti così. Sono ciechi alla rivelazione. Malkut è Malkut e basta.
Ma vaglielo a dire. Non hanno fede.
E allora tanto vale star qui, attendere, e guardare la collina.
È così bella.
Umberto Eco
Umberto Eco è morto. Il professore, filosofo e scrittore, figlio di Giulio e Giovanna Bisio aveva 84 anni.
Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932 si laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson e una tesi sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino, poi accresciuta e pubblicata nel 1970 dalla casa editrice Bompiani.
Il professor Eco ha segnato la nostra esistenza, quarantacinque libri, l’ultimo Numero zero, analisi spietata sul mondo della carta stampata, è il racconto di una redazione di cialtroni intenta ad alimentare la macchina del fango, opera di un “giornalista pubblicista” come qualche giornalista professionista gli aveva incautamente fatto notare.
Da Dedalus, pseudonimo joyceano con cui firmava per Il Manifesto, alla segreteria artistica di una RAI che non esiste più e presso la casa editrice Bompiani, come senior editor, Eco ha scritto per Il Corriere, La Repubblica e L’Espresso, alternandosi una volta a settimana con Eugenio Scalfari nella rubrica “La bustina di Minerva”.
“Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male le super concentrazioni alla diffusione dei libri“, così Umberto Eco aveva commentato nel giorno della nascita di “La Nave di Teseo”, la nuova case editrice ideata da Elisabetta Sgarbi e finanziata dagli scrittori, il pericolo della dittatura editoriale di Mondazzoli sull’autonomia della Bompiani così come l’aveva immaginata Valentino Bompiani nel 1929, anno della fondazione.
“Chi ti prende alla gola è la tua amica, la vita“. Le meraviglie del linguaggio dagli Elementi di semiologia di Barthes ai movimenti dello sperimentalismo e della neo-avanguardia del Gruppo 63, all’amore per il pensiero estetico medioevale sino alle poetiche post-moderne dei fumetti e la pop Art come in Apocalittici e integrati, su comunicazione di massa e analisi della cultura di consumo. Nel 1962 esce Opera aperta edito da Bompiani, in cui l’autore riflette sull’opera d’arte non solo letteraria e spazia dalla musica seriale a Joyce, e nel 1963 Diario minimo, raccolta di brevi saggi su osservazioni di costume e parodie ispirate dal’attualità, tra cui lo scritto Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Nel 1970 Lector in fabula, analisi del romanzo come “macchina pigra”, opera nutrita dall’analisi della semiosi illimitata di Peirce: “Ecco, ora si rompono gli indugi e questo lettore, sempre accanto, sempre addosso, sempre alle calcagna del testo, lo si colloca nel testo. Un modo di dargli credito ma, al tempo stesso, di limitarlo e di controllarlo“.
Umberto Eco elabora la genesi di un doppio codice di lettura anche nei romanzi, dal Nome della rosa, edito da Bompiani nel 1980, avventura investigativa di Guglielmo da Baskerville, labirinto di infiniti segni nella ricerca continua della verità non solo nell’interpretazione ermeneutica dei testi, ma anche dell’intera esistenza umana: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, la frase ultima del romanzo si ispira a un verso del De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense; al Pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) e Il cimitero di Praga (2010); opere fruibili per l’incolto e per il filologo, proiettando la divisione “alto-basso” in una mescolanza innovativa.
Sposato dal settembre 1962 con la tedesca Renate Ramge, insegnante d’arte, due figli, Stefano e Carlotta e due nipoti, il professor Umberto Eco ha inventato le “interviste impossibili” a personaggi di un tempo perduto in cui la critica e il giudizio però si fanno reali e ha insegnato che la risposta più illuminata è spesso da ricercare con umiltà nel passato; a “cos’è la filosofia“, ad esempio, Aristotele nella Metafisica rispondeva: “è la risposta a un atto di meraviglia“.
Addio Professore, ci recheremo ancora nelle biblioteche per scoprire delle pagine di cui ignoravamo l’esistenza, righe che si riveleranno fondamentali per il nostro vivere e non dimenticheremo mai la bellezza di imparare qualche verso o una poesia a memoria.
di Roberto Moisio
Cinquanta mila chilometri di confini, di cui quasi l’80% di mare. Dentro questi confini vive il 7% della popolazione mondiale, che produce il 20% del reddito mondiale e consuma il 50% del welfare globale.
Dentro questi confini vivono gli abitanti di 28 Paesi, che compongono una unione imperfetta di quello che viene chiamato “vecchio continente”.
Una Europa nervosa, impaurita, destinata ancora a ridursi quantitativamente in pochi anni, perché invecchiata , che non fa figli e che, in preda a una certa confusione mentale, tira su muri per difendersi dall’ondata di chi fugge da fame, povertà, guerra.
In questa situazione ha senso, come titolano sempre più spesso i giornali in questi ultimi tempi, “sospendere Schengen”?
Se lo sono chiesto stamani al Campus Einaudi dell’Università di Torino, docenti, ricercatori, politici e circa 200 studenti, universitari e di scuole superiori.
Innanzitutto si é cercato di fare un po’ di chiarezza sui termini della questione nell’incontro organizzato dal Dipartimento Culture, Politica e Società, diretto da Franca Roncarolo, docente di Comunicazione pubblica e politica.
Schengen é il Trattato del 1985 che sancisce la libera circolazione “interna” all’Unione Europea di persone e merci: con Schengen non è più necessario mostrare passaporti passando da uno all’altro dei Paesi Europei che hanno aderito al trattato; i voli in Europa sono voli “interni”; ha preso l’avvio il progetto Erasmus che ha permesso già ad alcuni milioni di giovani europei di integrare la propria formazione superiore nel continente; con Schengen é nata quella che i sociologi chiamano la “generazione Schengen”, giovani cioè che, a cavallo del 2000, incominciano a pensare al proprio futuro non necessariamente nel cortile di casa, che si confrontano con situazioni culturali ed economiche simili, ma diverse, che hanno in testa un “passaporto ” europeo.
Schengen é il pilastro normativo fondativo di un’identità europea, come l’euro é il collante dell’area economica continentale.
Sospendere Schengen significa tornare indietro nel tempo, alle barriere doganali, alla limitazione della circolazione di persone e merci. Significa la sepoltura del progetto europeo, nato dopo la seconda guerra mondiale per evitare nel futuro le guerre, i massacri che avevano caratterizzato i secoli precedenti e, soprattutto, la prima parte del ‘900.
C’é ancora questo rischio? Certo, basta pensare a quello che capitò non più di una ventina di anni fa, sull’altra sponda dell’Adriatico, dove ci furono conflitti ferocissimi e massacri tra popolazioni che avevano convissuto pacificamente nella allora Jugoslavia.
C’entra qualcosa Schengen con la difesa dal terrorismo? C’entra qualcosa la presenza della portaerei De Gaulle nel Mediterraneo dopo l’attentato di Parigi del novembre scorso? I terroristi finora identificati erano tutti cittadini francesi o belgi, già da tempo “dentro” i confini europei.
Ed erano terroristi organizzati, si chiede l’antropologo Roberto Beneduce, quelli che la scorsa estate facevano da palline di ping pong tra la stazione ferroviaria e gli scogli di Ventimiglia?
Difficile immaginare organizzazioni terroristiche così scalcagnate…
Per difendere più efficacemente l’Europa dal terrorismo e dalla criminalità, anche economica, il Gruppo Spinelli propone per bocca di Mercedes Bresso, parlamentare a Strasburgo per il PD, 5 punti, che consentano una ancor maggiore integrazione tra i 28 Paesi:
1- una politica europea unica di asilo, superando il Trattato di Dublino, che si occupa di questa materia
2- una guardia di frontiera comune, non solo nazionale, ma integrata
3- una intelligence europea (il massacro del Bataclan ha dimostrato ciò che già si sapeva, che la cooperazione tra i diversi Servizi è lacunosa e imperfetta)
4- una Agenzia di Polizia Europea
5- un sistema giudiziario europeo, sempre più integrato e un Procuratore europeo che persegua reati commessi in più Paesi, per rendere più efficace la lotta al terrorismo e, soprattutto, per contrastare la criminalità economica e le mafie che prosperano sulle differenze dei sistemi giudiziari e sui confini interni che rallentano le indagini.
Per Bresso è una sciocchezza sospendere Schengen; semmai bisogna mettere in atto, come per le cinque proposte di contrasto al crimine, tutte le possibili iniziative politiche tendenti a una integrazione sempre maggiore, per meglio tutelare la sicurezza dei cittadini europei.
Per garantire meglio controlli e integrazione, spiega Umberto Morelli, docente di Relazioni internazionali, servono 20 miliardi l’anno. La Commissione Europea dispone di un bilancio complessivo di 140 miliardi l’anno, corrispondente all’1% del Pil continentale.
Troppo poco e per di più, nell’ultima programmazione di fondi 2014-2020, per la prima volta sono stati ridotti i fondi. Ulteriore dimostrazione della miopia strategica delle politiche di austerity. Con l’applicazione della carbon tax, tassa sull’inquinamento, si potrebbero reperire circa 35 miliardi l’anno, ma la proposta è da tempo ferma, immobile.
Morelli ricorda come invece nel 1935, sei anni dopo l’inizio della recessione economica, Roosvelt avesse quadruplicato il bilancio federale, per contrastarne gli effetti.
E come si fa a chiedere alla Grecia, che fatica a pagare le pensioni, di farsi carico da sola dei controlli alle frontiere, pena l’esclusione da Schengen?
Semmai, sottolinea Francesco Costamagna, giurista, la questione si risolve modificando il Trattato di Dublino, non Schengen, allineandosi sostanzialmente alla proposta del Gruppo Spinelli di una politica di asilo unica, europea.
Infine qualche piccolo dato, fornito da Maurizio Veglio, avvocato che si occupa professionalmente dei rifugiati, per inquadrare le dimensioni di un problema su cui scientemente mestatori xenofobi e mass media confusi non consentono valutazioni razionali, ma giocano sulle emozioni e sulle paure di cittadini sull’orlo di una crisi di nervi.
Nel 2015 sono transitati dalla Turchia verso la Germania e il Nord Europa 851 mila persone, in prevalenza siriane, richiedenti asilo, richiesta peraltro a cui, in base al diritto internazionale, è doveroso dare risposta.
153 mila in Italia, alcune migliaia in meno del 2014, di cui quasi la metà non identificati e, presumibilmente, “spariti” in altri Paesi europei, mentre in Turchia, che ha chiesto per questo 3 miliardi all’Unione Europea, vivono circa 2 milioni e mezzo di siriani in condizioni tragiche. Il Libano, che ha 4 milioni di abitanti, accoglie circa 1 milione di profughi siriani.
I termini più usati nelle varie cronache riguardanti l’immigrazione in Europa inerenti alle politiche di accoglienza sono “hot spot”, “hub” e altre tecnicalità in burocratese.
Ma l’accampamento dei profughi a Calais, che è stato mostrato poche settimane fa dalle telecamere di Sky, non sarebbe più corretto chiamarlo “campo di concentramento”?
Al seminario i ragazzi erano attenti, concentrati, perplessi. Contemporaneamente il Consiglio Europeo era riunito a Bruxelles con la stessa questione all’ordine del giorno.
“Dum Romae consulitur, Saguntum peritur“.
È proprio vero che la storia si ripete, ma quasi sempre in peggio.
di Luca Mershed (Italians for Darfur)
Il Parlamento algerino ha votato l’adozione di riforme costituzionali che permetteranno al Paese di rafforzare la sua posizione democratica e introdurre dei cambiamenti chiave. Avviati dal presidente Abdelaziz Bouteflika, gli emendamenti alla Costituzione sono stati sostenuti da 499 dei 517 parlamentari -16 astenuti. …Leggi tutto »
di Elisa Marincola
Il giornalismo, quando è fatto bene, è un gran bel mestiere. Lo abbiamo scritto decine di volte, è la base per una sana cittadinanza in grado di comprendere la realtà circostante, fare scelte consapevoli, in politica, in economia come nei consumi, nella società e nella cultura, persino nella vita affettiva; consente a chi lo svolge di conoscere mondi e persone anche molto distanti da sé, certe volte dietro l’angolo di casa, raccontare le loro storie, condividere con lettori e spettatori i loro sentimenti, fino a dar loro la voce che nella vita quotidiana non riescono a conquistare. …Leggi tutto »
di Antonella Napoli