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Venezuela, inedia o resurrezione

Di Livio Zanotti

Ramon mette il telefono-cellulare in vivavoce e dall’ufficio di funzionario della facoltà d’Architettura dell’Università Nazionale, con lo stadio olimpico davanti alla finestra e 10mila chilometri di disgrazie, montagne, foreste e acque atlantiche che ci separano, mi giungono il suono della chitarra acustica di Reynaldo Goitia e la voce che cantilena il refrain di “El cadaver de un corazón roto”, lamento d’amore e di vita quotidiana a Caracas. E’ l’hit delle poche balere ancora aperte il sabato sera: ”…se il governo non aiuta il popolo, cosa accadrà…”, canta il menestrello che prima del successo canoro faceva l’avvocato. “E’sulle labbra di tutti, chavisti e anti-chavisti, perché alle pene del cuore intreccia la miseria della tavola all’ora dei pasti, l’ingiustizia della giustizia, la delusione del chavismo, i morti ammazzati per la strada dalla criminalità di cui nessun’altra canzone parla”, commenta Ramon che nell’alta valle di Caracas è nato e cresciuto.
Suona come epigrafe allo sconquasso che m’ha appena riassunto e in cui annaspa il paese bolivariano, orfano di Hugo Chavez e dell’acrobatico equilibrio, precario ma dinamico, in cui il leader scomparso era riuscito per una dozzina d’anni a mantenere la sua rivoluzione nazional-popolare. Una crescita e una modernizzazione complessive della società e dell’economia le aveva pur portate: più lavoro, più educazione e più salute. Sebbene persistessero arretratezze pesanti, fragilità e contraddizioni (burocratizzazione e corruzione) a fatica contenute dal carisma di Chavez, dal potere che gli garantivano il sostegno militare e soprattutto i petrodollari, fortuna e maledizione del Venezuela saudita. La morte del Colonnello e la caduta dei prezzi petroliferi oltre ogni previsione, hanno travolto le limitate capacità di governo del Delfino, Nicolás Maduro. Le sue risposte alla crisi, sovente autoritarie e demagogiche, l’hanno soltanto aggravata.
Trasformandola alla fine in un’agonia scossa dai violenti sussulti causati dalla scarsità d’ogni bene: degli alimenti e dei medicinali, dell’energia elettrica e della sicurezza personale che con il buio della notte cade in trappole spesso mortali nelle strade delle città per lo più prive d’illuminazione. “… Non abbiamo automezzi, non abbiamo polizia, ma in qualche modo l’aiuteremo…”, canta ancora Reynaldo Goitia imitando le risposte registrate che ricevono i cittadini quando chiedono soccorso ai centralini telefonici della forza pubblica. Alla crisi dei trasporti interni, da sempre difficili per dilagante abusivismo delle urbanizzazioni e le insufficienze infrastrutturali, si aggiunge ora il rischio d’isolamento internazionale. Dopo Lufthansa, Air Canada e Alitalia, anche Latam, la più grande compagnia aerea sudamericana, ha annunciato la sospensione dei suoi collegamenti con Caracas. Il Venezuela, terra di gesta portentose e sogni infranti, appare soverchiato dalle sue stesse necessità insoddisfatte.
L’inflazione, quest’anno al 150 per cento, secondo il Fondo Monetario Internazionale raddoppierà nel 2017; l’indebitamento va gonfiandosi come un torrente in piena, al pari della disoccupazione. Per riservare la maggiore quantità possibile di energia all’ industria, i dipendenti pubblici lavorano solo al mattino, 2 o 3 giorni a settimana. Nonostante ciò, a causa delle frequenti interruzioni di elettricità, molte fabbriche hanno ridotto produzione, personale e relativi salari agli operai rimasti. Neppure un centesimo d’investimento dall’estero. Anzi le imprese straniere già esistenti, soprattutto nel settore energetico, restringono l’attività degli impianti malgrado la recentissima ripresa dei prezzi petroliferi sui mercati internazionali. Alla feroce siccità provocata dal periodico fenomeno meteorologico del Niño, il governo attribuisce i pessimi raccolti di cereali, leguminose, verdure e per attenuare le penurie conseguenti ha inventato l’agricoltura vertical, affidandola a un nuovo ministero ad hoc. Così che in giardini pubblici e cortili, su spalliere alte 2 o 3 metri, ora fioriscono gli orti di guerra.
Giustificandosi con questa situazione ch’egli stesso ha contribuito a creare, Maduro ha rinnovato un mese fa il decreto sullo stato di emergenza, che sospende alcuni diritti costituzionali e riduce i poteri dell’Asamblea Naciónal, il Parlamento in cui dalle elezioni del dicembre scorso l’opposizione ha la maggioranza dei due terzi e pertanto il controllo dell’attività legislativa. L’arco di partiti che ne contestano la legittimità e vogliono cacciare il Presidente prima della scadenza naturale del mandato, tra poco meno di 2 anni, ha raccolto un milione e 800mila firme per un referendum che però non riesce a consegnare al destinatario, il Consiglio Elettorale, perché impediti dall’esercito che protegge la cittadella delle sedi istituzionali. Per protesta hanno allora occupato le strade del centro per un’intera giornata con una folla di manifestanti. Il governo ha risposto con manovre militari che hanno circondato la capitale di soldati e reparti blindati, ma anche di mense popolari per migliaia di persone. Messaggio eloquente: ci sono bastone e carota, ciascuno faccia la sua scelta.
L’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, esponente d’indiscusso prestigio della sinistra sudamericana, teme che l’escalation possa portare a un nuovo colpo di stato militare: ”Di questo passo le istituzioni democratiche se ne vanno all’inferno… c’è gente dell’opposizione che il golpe lo vuole da sempre, ha anche provato a farsene uno che però gli è scoppiato tra le mani…”. Il suo ex ministro degli Esteri e attuale segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, sta comunque valutando se il governo venezuelano ha violato lo statuto democratico dell’OSA. “Almagro è un agente della CIA”, ha subito reagito pubblicamente Maduro. “Sei pazzo come una capra”, gli ha replicato altrettanto prontamente Mujica, nella sua agreste spontaneità. Non ci sono precedenti di scambi altrettanto coloriti nella pur creativa diplomazia americana. Solo il ricordo dei devastanti colpi di stato degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rendono più che caute le cancellerie dell’intero continente, rispetto ai pericoli di un’aperta rottura istituzionale.
Tanto Maduro quanto la maggior parte dell’opposizione sono consapevoli dei rischi estremi di fronte ai quali è giunto il Venezuela, sebbene nessuno rinunci a cercare di trarne in ogni caso un profitto di parte. Con somma discrezione e senza alcun riconoscimento formale, è stato avviato un dialogo. A Punta Cana, centro balneare della Repubblica Dominicana, si stanno incontrando esponenti del governo (nelle conversazioni è intervenuto il vicepresidente Aristobulo Iztùriz Almeida) con autorevoli inviati di Henrique Capriles, il capo di Unidad Democratica, il partito oppositore di maggior consistenza. Presenti in qualità di mediatori e garanti rappresentanti di Unasur (la Comunità fondata nel 2008 con il trattato di Brasilia che federa 15 paesi latinoamericani tra cui tutti i più importanti) e l’ex premier spagnolo José Luis Zapatero. La Segreteria di Stato vaticana e i fratelli Castro dall’Avana, un benevolo silenzio di Obama dalla Casa Bianca, accompagnano a distanza l’estremo tentativo di acciuffare per i capelli il Venezuela per evitargli il precipizio.

Ergastolo per ex dittatore Ciad

di Luca Mershed, Italians For Darfur

Al culmine di un processo storico, l’ex dittatore del Ciad, Hissène Habré è stato riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità, esecuzioni sommarie, torture e stupri.
Habré, che è stato condannato all’ergastolo a Dakar, in Senegal, è il primo ex Capo di Stato ad essere condannato per crimini contro l’umanità da parte dei giudici di un altro Paese.
Secondo Human Rights Watch, l’organizzazione determinante nel portarlo a processo, egli è anche il primo Capo di Stato ad essere mai stato condannato personalmente di stupro.
Durante lo scorso anno, Habré è stato costretto ad ascoltare 90 persone che lo hanno accusato, testimoniando, di aver gettato migliaia di persone in carceri segrete, dove sono state torturate ed uccise. Il suo caso è stato preso in esame dalle Camere Straordinarie Africane, istituite dall’Unione Africana ed il Senegal, e che Habré ha rifiutato di riconoscere.
I sopravvissuti hanno, anche, descritto le condizioni di detenzione spaventose, in cui fra i detenuti giacevano i cadaveri di coloro che erano soffocati o morti di malattia. Le donne sono state tenute come schiave sessuali.
Il giudice Gbertao Kam lo ha condannato all’ergastolo in un carcere in Senegal. “Alcune vittime che sono ancora vive ancora soffrono gli effetti del suo regime, dei crimini commessi contro di essi”, ha detto. “Habré ha creato un sistema in cui l’impunità e il terrore regnavano. Egli non ha mostrato alcuna compassione verso le vittime o espresso qualsiasi rammarico per i massacri e stupri che sono stati commessi”, ha continuato il giudice.
Dopo che il giudice Kam ha consegnato il verdetto, ci è voluto un minuto per capire cosa stava accadendo. Poi un ululato è passato trai banchi delle vittime: erano le vedove, una fila di donne vestite con colori luminosi che aveva viaggiato dal Ciad per vedere cosa sarebbe successo all’uomo responsabile della morte dei loro mariti. Dopo decenni di attesa, possono finalmente festeggiare. L’aula è esplosa in applausi e pianti.
Quasi tre decenni fa, Souleymane Guengueng, un ex ragioniere che ancora non sa il motivo per cui è stato imprigionato, ha promesso nella sua cella, incredibilmente affollata, che se fosse sopravvissuto, avrebbe combattuto per la giustizia. Lunedì, ha potuto sollevare il pugno, e abbracciare i suoi compagni -vittime come lui- da cui ha faticosamente raccolto per decenni la testimonianza. Il suo lavoro è stato fondamentale per il processo.
Clemente Abaifouta, raccontando che durante i suoi quattro anni di detenzione doveva seppellire i corpi in putrefazione dei suoi compagni di cella morti, è saltato su e giù ed ha gettato il cappello in aria, al grido di “Vive la victoire”.
Mentre centinaia di persone applaudivano e celebravano, Habré è stato condotto fuori dal tribunale. Sprezzante con i suoi occhiali da sole cerchiati d’oro ed un turbante bianco che oscurava gran parte della sua faccia, Habré era stato portato nella corte il primo giorno scalciando ed urlando, ma da allora si è nascosto in cantieri di tessuto non pronunciando una parola.
Il giudice ha spiegato che Habré era molto informato su ciò che stava accadendo e ha dato egli stesso gli ordini di esecuzione di molti crimini. “Habré era stato direttamente informato sulla precaria situazione dei prigionieri di guerra, ma aveva ordinato che non un solo prigioniero di guerra aveva il permesso di lasciare la galera finché non era morto”, ha affermato.
“Il suo metodo era del tutto coerente: identificare i nemici del regime, arrestarli, torturarli, sottoporli a condizioni orribili, ucciderli. Le testimonianze di violenza sessuale sono state considerate molto credibili dal giudice. La corte è convinta che le donne abbiano detto la verità”, ha concluso il giudice.
“Questo giudizio è così sorprendente”, ha detto Reed Brody, l’avvocato di Human Rights Watch conosciuto come il Caccia Dittatori, che ha combattuto al fianco delle vittime a partire dal 1999 per ottenere che Habré fosse processato per quello che aveva fatto.
“La condanna di Habré per questi crimini orribili dopo 25 anni è una vittoria enorme per le vittime ciadiane, senza la cui tenacia questo processo non sarebbe mai avvenuto”, ha detto Brody. “Questo verdetto invia un messaggio forte che i giorni in cui i tiranni violino i diritti delle persone, saccheggino i loro beni e scappino all’estero per una vita di lusso stanno volgendo al termine. Questa giornata sarà scolpita nella storia come il giorno in cui un gruppo di sopravvissuti ha portato il loro dittatore alla giustizia”, ha terminato affermando con orgoglio.
Il figlio di Habré, Bechir Hissène Habré, è stato in tribunale, e ha detto che Idriss Déby, l’attuale Presidente del Ciad, che ha spodestato Habré in un colpo di Stato, potrebbe rispondere per quello che è successo a suo padre. Habré ha vissuto a Dak

Evviva Don Abbondio

di Vincenzo Vita

 

Al confronto don Abbondio degli “impedimenti dirimenti” appare abile e deciso come Harrison Ford dell’”Arca perduta”, coraggiosissimo come Tom Cruise nelle sue missioni impossibili, sagace e intuitivo come il tenente Colombo.
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Scelto Hibatulá Ajunzada come nuovo leader dei Talebani

di Antonella Napoli

Dopo la morte del Mullah Omar, fondatore e leader storico dei talebani, c’è stata una lotta per il potere che era stata vinta dal Mullah Mansur. Ora, dopo la morte di quest’ultimo, le divisioni interne si sono riaperte di nuovo anche se la scelta del nuovo leader, il Mullah Hibatulá Ajunzada, sembra dare spazio ad una tregua durevole. …Leggi tutto »

Azerbaigian: appello di RSF sulla libertà di stampa

Reporters sans frontières*

In occasione del quarantesimo compleanno della giornalista Khadija Ismaïlova, Reporters sans frontières (RSF) ha festeggiato la sua recente liberaziona e ha lanciato un appello al governo dell’Azerbaigian (163 ° su 180 nella classifica mondiale 2016 la libertà di stampa di RSF) perchè metta fine alle violazioni della libertà di stampa.

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Idomeni, uno dei ‘Limbi’ costruiti dall’Europa

Era il 6 di maggio scorso quando Rawan Yahji, ragazza palestinese che sta studiando in Italia, è andata, insieme alle associazione Le Mafalde di Prato, a fare un viaggio di solidarietà nell’ormai tristemente noto campo profughi greco di Idomeni: 8000 persone in attesa di capire se poter andare avanti con il loro progetto di entrare davvero in Europa, ricongiungersi a familiari che già ci sono, o dover tornare indietro.  …Leggi tutto »

#FermiamoleGuerre!

Per risolvere la crisi dei rifugiati dobbiamo andare alla radice del problema. Giovedì 26 maggio a Udine manifestazione per la pace degli studenti del Friuli Venezia Giulia. Appuntamento ore 9.00 Auditorium del Palazzo della Regione, Via Sabbadini 31, ore 12.00 Piazza San Giacomo …Leggi tutto »

Renziadi. Scatta l’ora X

di Vincenzo Vita

La tendenza all’occupazione mediatica da parte del governo in vista del referendum sulla Costituzione è diventata una pratica normale. Come nel liberismo selvaggio, dove la legge è piegata agli interessi dei potenti, anche nell’universo dell’informazione sta avvenendo uno scontro da film western, Bmovie naturalmente. …Leggi tutto »

Europarlamento si mobilita per Asia Bibi

di Antonella Napoli

 

È partita oggi, su iniziativa del vicepresidente del Parlamento Europeo con  delega al dialogo interreligioso, Antonio Tajani, la raccolta firme tra gli europarlamentari contro l’esecuzione della pena capitale e  per la liberazione di Asia Bibi, madre di cinque figli  condannata per blasfemia in Pakistan nel 2010.
Dovrebbero essere in molti, viste le tante battaglie già intraprese contro la persecuzione dei cristiani a Bruxelles, a sottoscrivere la dichiarazione presentata da Tajani, sia eurodeputati di varie nazionalità che di diversi gruppi politici. L’obiettivo è di raccogliere in tre mesi  le firme della metà più uno dei membri del Parlamento europeo .
Oltre  questa soglia, la dichiarazione avrà giuridicamente l’effetto di una  vera petizione e sarà inviata all’Alto rappresentante dell’Unione europea  e alla Commissione europea per intraprendere tutte le azioni politiche  e diplomatiche necessarie per la liberazione di Asia Bibi e per la  promozione del rispetto della libertà  religiosa in Pakistan.
L’Europa dunque non resta in silenzio  davanti all’ingiusta prigionia della Bibi, in carcere da 7 anni. La donna è divenuta un simbolo della persecuzione  di cui sono vittime i cristiani in tutto il mondo.
Impedire che sia  eseguita una condanna a morte per un reato inaccettabile e  inesistente è un dovere di tutti, cristiani e non. Ne  è convinto  il vicepresidente del Parlamento europeo che  annunciando l’avvio della raccolta delle firme ha ricordato che il 4 novembre 2014 una folla di 1500 persone in Pakistan  bruciò viva una coppia accusata di blasfemia e due mesi  fa, durante le festività di Pasqua, migliaia di  estremisti islamici hanno manifestato davanti ai palazzi del governo a Islamabad chiedendo la piena applicazione della Sharia e l’esecuzione  della prigioniera sulla base di accuse prive  di riscontro basate sulle dichiarazioni di un gruppo di donne musulmane che l’avevano denunciata alla polizia giorni dopo presunte offese al Corano.
Da quando è stata arrestata nel 2009, la donna è stata tenuta in quasi totale isolamento allo scopo di proteggerla. La sua salute mentale e fisica è andata deteriorandosi durante la permanenza in carcere. La sua famiglia e gli avvocati continuano a temere per la sua sicurezza. Nel dicembre 2010, un religioso islamico di primo piano ha offerto mezzo milione di rupie pakistane (circa 4000 euro) a chiunque l’avesse uccisa.
Eppure la Bibi non avrebbe nemmeno dovuto essere imprigionata, visto che le leggi sulla blasfemia sono incompatibili con gli obblighi internazionali del Pakistan di garantire i diritti alla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione.
La Sharia (la legge islamica) è però ancora utilizzata per risolvere le controversie personali e coloro che sono accusati di blasfemia diventano bersaglio di violenza. 
Anche se da quando le nuove leggi sulla libertà religiosa sono entrate in vigore in Pakistan nessuno è stato giustiziato, decine di persone di diverse comunità religiose, tra cui musulmani, sono stati attaccati e uccisi da privati dopo essere stati accusati di blasfemia, alcuni anche durante la detenzione.
Sul caso di Asia Bibi si è da subito mobilitata Amnesty International che ha lanciato una campagna per chiedere la liberazione e la garanzia di misure efficaci per garantire la sua sicurezza e quella della sua famiglia.
L’organizzazione per i diritti umani ha anche inviato una lettera aperta al primo ministro pakistano per sollecitare una riforma della legge sulla blasfemia e fornire salvaguardie contro il suo abuso, in vista dell’abrogazione definitiva della stessa. Ma finora poco è cambiato,
L’auspicio, ora, è che l’iniziativa europea possa prima di tutto portare alla sospensione della pena della Bibi ma anche sollecitare le istituzioni del Pakistan ad assumere provvedimenti concreti a tutela delle minoranze religiose, costantemente a rischio nel Paese.

 

 

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#PalermoChiamaItalia: la FNSI partecipa alla giornata

Ci sarà anche una folta delegazione del sindacato dei giornalisti con i 40.000 studenti che a Palermo, lunedì 23 maggio, commemoreranno le stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui la mafia uccise i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e gli uomini e le donne delle scorte: Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano. …Leggi tutto »